La Censura in Sicilia fino al 1860

La Censura in Sicilia fino al 1860
Dai Roghi all'Autocensura
La censura, capite, è come una di quelle vecchie comari con lo scialle nero, che siedono immobili all’angolo della piazza. Tutti la salutano con rispetto, ma appena si volta l’angolo, la chiamano “malanova”.
La censura ha tanti volti quanti sono i modi di tacere. Ce n’è una alta e rumorosa, fatta di decreti, scomuniche e roghi. E ce n’è un’altra, più subdola, più viscosa, che lavora dentro. L’autocensura: quella che ti infili nella testa quando capisci che parlare costa troppo.
In Sicilia, dove il silenzio è cultura e la parola un rischio, la censura non ha mai avuto bisogno di alzare la voce. Bastava un gesto del Viceré, uno sguardo del canonico, un commento al caffè. E l’intellettuale, il poeta, il filosofo, abbassava gli occhi e scriveva tra le righe, quando non strappava la pagina.
Quando la stampa fece il suo ingresso in Europa, con Gutenberg e le sue Bibbie a 42 righe, il potere tremò. E la Sicilia, allora sotto il giogo spagnolo, reagì con lo zelo inquisitoriale del Sant’Uffizio. Ogni libro doveva passare dal vaglio del Viceré e del teologo di corte. I libri proibiti viaggiavano nascosti, sotto finte copertine o con luoghi di stampa fasulli: Venezia per quello che veniva da Palermo, Amsterdam per ciò che spuntava da Catania.
Ma l’evento più nero, quello che ancora puzza di cenere, fu nel 1799. Piazza Vigliena – quella che oggi chiamiamo Piazza Magione – divenne teatro di un autodafé.
Re Ferdinando IV, scappato da Napoli travolto dai venti della Repubblica Partenopea, volle dare una lezione ai sudditi protetto dall'esercito inglese. Una lezione di carta e fuoco.
Il rituale fu teatrale e crudele:
– I libri, su carri scoperti, furono condotti per le strade come condannati.
– Un notaio declamava ad alta voce titoli e autori, come si fa con i banditi.
– Un frate domenicano, col tono del Giudizio Universale, scagliava anatemi contro “le empietà dell’illuminismo”.
– Le trombe militari suonavano marce da funerale, mentre le fiamme divoravano Voltaire, Rousseau, Diderot… e anche i siciliani “sospetti”: pamphlet clandestini, opuscoli filosofici, satire.
Francesco Paolo Di Blasi, giurista e rivoluzionario, fu giustiziato già nel 1795 per aver sognato una repubblica palermitana. I suoi scritti furono bruciati dopo la sua morte, come se anche da morto potesse infettare il Regno.
Tommaso Natale, filosofo dai modi garbati e dalle idee forti, fu costretto all’esilio. Di lui oggi si ricordano a stento gli epitaffi.
Giovanni Agostino De Cosmi, pedagogista coraggioso, fu messo all’indice per aver voluto una scuola laica, e cioè, in fondo, libera.
Il poeta Giovanni Meli, da uomo accorto, annotò in un taccuino: “Ardono la carta, non le idee.” Le sue opere circolarono comunque, lette sottovoce tra le righe di un sonetto d’amore.
Nel 1812, tra rivolte e compromessi, fu promulgata una Costituzione che abrogava la censura preventiva. Ma come accade in Sicilia, il sole dura poco prima che torni la bonaccia.
Già nel 1816, con il ritorno dell’assolutismo borbonico, tutto fu spazzato via. E ancora nel 1820 si vide un altro spiraglio, subito richiuso. Il potere, quando concede, è sempre pronto a riprendersi con gli interessi.
E intanto, chi scriveva, pagava. Michele Amari, storico, si vide costretto a fuggire. Le sue “Guerre del Vespro” non piacevano a chi voleva un popolo obbediente e senza memoria. Luigi Settembrini, intellettuale raffinato, fu condannato a morte nel 1849, poi graziato per misericordia apparente: gli diedero l’ergastolo. Raffaele Lanza, giornalista di Messina, finì in carcere senza processo, come si usa con chi sa troppo.
Eppure, c’è anche chi scelse di servire il potere. Salvatore Maniscalco, direttore della polizia borbonica, fu il regista occulto della stampa siciliana. Lui conosceva il teatro del potere: i giornali erano marionette e lui tirava i fili. Ma anche lui, alla fine, fu messo da parte, come accade ai burattinai quando il pubblico cambia gusto.
Nel 1860, Garibaldi sbarcò a Marsala. Gli storici scrivono: "Cominciò una nuova era". Ma la censura, si sa, cambia abito, non mestiere. Dove prima c’era il rogo, ora c’è il regolamento. Dove prima c’era il Sant’Uffizio, ora c’è il Ministero.
In un angolo discreto di Piazza Magione, una targa anonima lasciata da un gruppo di studenti negli anni 70 recita:
“Qui dove bruciarono libri,
bruciarono anche uomini.
E nessuno gridò allo scandalo,
perché il fumo sapeva di carta,
non di carne.”
Eppure, il vero pericolo non è quello che ci vietano di dire. È ciò che smettiamo di pensare per paura di dirlo. L’autocensura è una malattia lenta, invisibile. Ti entra nel respiro e ti fa scrivere con la penna spezzata.
Nel 2020, durante dei lavori sotto Piazza Magione, emersero frammenti di carta bruciata. L’Università di Palermo li analizzò: tracce d’inchiostro, parole cancellate dal tempo. Forse erano pagine dell’opera di Vito Maria Amico, storico catanese, le cui cronache non allineate furono metodicamente fatte sparire dal potere.
Ma in Sicilia, terra di fuoco e silenzio, anche un frammento di cenere può essere seme. Basta uno scirocco, e la memoria si rialza in piedi.
Fonti: TRA CENSURA ECCLESIASTICA E CENSURA DI STATO LA SICILIA BORBONICA (1734-1860) Tesi di Laurea di MARTINA FORCIERI università degli studi di Palermo anno accademico 2013/14; wikipedia, treccani.
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