Oggi - 17 gennaio 2025 - venerdì della I settimana del Tempo Ordinario, la Chiesa celebra la memoria obbligatoria di Sant’Antonio abate, conosciuto anche con le ulteriori specificazioni “d’Egitto” (per la sua origine), “del deserto” (per il luogo dove amava vivere) e “l’anacoreta” (per la forma di vita spirituale prediletta). Di Antonius (Antonio), questo il suo nome in latino, si conosce soprattutto quanto riportato dall’opera “Vita Antonii” (“Vita di Antonio”), attribuita al suo fedele discepolo vescovo e teologo Atanasio di Alessandria detto “il Grande”, che la pubblicò nel 357, ad appena un anno dalla morte. Antonio nacque nel 250 o 251 a Coma, presso Eraclea (o Eracleopoli), nel cuore della Provincia Romana dell’Egitto (oggi Qumans, nell’omonima repubblica nordafricana), da una famiglia di ricchi agricoltori cristiani. Aveva una sorella più piccola, con la quale condivideva fin da piccolo una profonda fede e il desiderio di consacrarsi al Signore. Attorno al 270, rimasto orfano, si orientò definitivamente verso la vita religiosa unitamente alla sorella. Così, mentre quest’ultima entrava in una comunità monastica femminile, egli distribuì ai poveri tutti i beni di famiglia e seguì la vita solitaria che gli eremiti conducevano nel vicino deserto, vivendo di carità in preghiera e castità. Narra la tradizione che una notte, nella solitudine della landa desolata ove abitava, fece un sogno in cui un eremita trascorreva le giornate dividendo il tempo tra la preghiera e l'intreccio di una corda. Per ispirazione divina capì che povertà e preghiera non bastavano per giungere alla santità e che era bene dedicarsi anche al lavoro manuale per mantenersi e procurarsi il cibo. Così stimolato, continuò la vita eremitica accompagnando alla preghiera la coltivazione di un piccolo orto e il confezionamento di ceste e corde con le piante del posto. La sua era un’esistenza autenticamente evangelica, ma non per questo esente dalle tentazioni demoniache, che anzi furono fortissime, unite ai dubbi sulla validità della vita solitaria, sapientemente inculcatigli dal maligno. Più andava avanti sulla via della perfezione cristiana, più gli attacchi del nemico erano forti. A questo proposito, si tramanda che una volta fu fisicamente aggredito e malmenato dal diavolo, talmente forte da essere lasciato svenuto sul posto, più morto che vivo. Fu però provvidenzialmente trovato da alcuni pii pastori e trasportato nella chiesa del suo villaggio d’origine, dove fu curato fino alla guarigione. Altri anacoreti più anziani, ai quali chiese suggerimento, lo incoraggiarono a perseverare nel cammino intrapreso, consigliandogli di staccarsi ancora più radicalmente dal mondo. Allora, coperto solo da un rude panno, si allontanò di nuovo, ritirandosi in una cavità scavata nella roccia, a pregare e digiunare. Sopravviveva solo grazie all’acqua di una sorgente, ai proventi del piccolo orto che lavorava e a quel poco altro cibo che talvolta riceveva in dono dai buoni pastori di capre. Si tramanda ancora che, verso il 285, si spostò in una grotta del monte Pispir, vicino al Mar Rosso, presso una fortezza romana abbandonata, rimanendovi per circa una trentina d’anni, sostenendosi sempre con gli stessi mezzi, molto frugalmente. Tuttavia, anche in questo luogo, mentre crescevano i suoi sforzi di ricerca della compiutezza evangelica, il diavolo continuò a tormentarlo. Le sue famose tentazioni risalgono proprio a questo periodo, si dice che fosse perseguitato incessantemente da visioni che ora lo lusingavano, ora lo minacciavano e da diavoli bastonatori che tentavano di strappargli l’anima a furia di percosse. Intanto, diffondendosi sempre più la fama della sua santità, contraddistinta da miracoli ed esorcismi, cominciarono a raccogliersi intorno a lui dei discepoli, che egli iniziò a guidare spiritualmente. Per loro, anche se prediligeva la solitaria vita degli anacoreti rispetto a quella comune dei monaci, ebbe l’intuizione di costituire dei piccoli gruppi “sociali” nei quali farli vivere, vere e proprie “famiglie” di eremiti, che, sotto la guida di un padre spirituale chiamato appunto “Abbà” (“Padre” in aramaico), si consacravano al servizio di Dio in luoghi isolati e nella sostanziale solitudine, attenuata da un minimo di vita comune. Per questo ogni singolo gruppo di eremiti, che presero a essere definiti normalmente “Padri del deserto”, viveva in grotte e anfratti di fortuna nei luoghi più isolati, sotto la guida del confratello più anziano, mentre lui curava la direzione spirituale comune di tutte le varie “famiglie”. Secondo la tradizione, operava molteplici guarigioni ed esorcismi, veri e propri miracoli che lo resero famosissimo. In questo remoto angolo desertico restò per il resto della vita, salvo due interruzioni. La prima fu nel 311, durante la terribile persecuzione contro i cristiani scatenata dall'imperatore romano Massimino Daia (dal 305 al 313), quando, pur conscio dei rischi che correva, volle recarsi nella grande metropoli di Alessandria d’Egitto per sostenervi e confortarvi i seguaci di Gesù, senza che miracolosamente fosse arrestato. Solo dopo il 313, a seguito dell’“Editto di tolleranza” dell’imperatore Costantino I (dal 306 al 337), che cancellò per sempre le sanguinose persecuzioni contro i cristiani, tornò al suo amato deserto, continuando a ricevervi continue visite di pellegrini, malati, poveri e bisognosi da tutto l'Oriente, attratti dal suo grande carisma. Pare che addirittura lo stesso imperatore e i suoi figli ne abbiano cercato l’illuminato consiglio. Lasciò il provvisoriamente il romitaggio, per la seconda e ultima volta, nel 315 circa, per recarsi ancora ad Alessandria d’Egitto su invito del suo discepolo e futuro biografo Atanasio “il Grande”, vescovo di quella metropoli, che aiutò nella lotta contro la setta eretica degli Ariani, esortando i cristiani del posto alla fedeltà verso i dettami del Concilio di Nicea, tenutosi in quell’anno, che aveva condannato tale eterodossia. Nel 356 o 357, ultracentenario, stanco e malato, rese l’anima a Dio nel deserto della Tebaide, venendo sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto, tuttora sconosciuto. Antonio, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati, è universalmente noto come il protettore degli animali domestici, tanto che nell’iconografia classica è sempre raffigurato attorniato da un maialino e altre bestie. Ogni anno, in occasione della sua festa, il 17 gennaio, si portano a benedire gli animali domestici e nelle campagne anche quelli delle stalle. Questa tradizione nacque in epoca medievale, quando esistevano i cosiddetti “Antoniani”, fratelli laici sotto guida di monaci Benedettini, che lo avevano come riferimento e patrono (fondati nella Francia meridionale in quel periodo e poi soppressi nel 1776). Questi allevavano maiali che venivano donati loro dai contadini, usandoli per nutrire i poveri e per creare unguenti medicamentosi col loro grasso unito a erbe officinali. Antonio divenne così patrono dei maiali prima e di tutti gli animali domestici e della stalla in un secondo tempo. Egli, inoltre, è spesso rappresentato accanto a un fuoco, che si riferisce simbolicamente alla dolorosa infiammazione virale comunemente per lui chiamata proprio "Fuoco di Sant’Antonio" (in medicina “Herpes Zoster”), per la cui guarigione lo s’invocava, dato che in vita aveva sopportato nel suo corpo piaghe dolorosissime scatenate da Satana, proprio come un fuoco infernale.
IMMAGINE: "Sant'Antonio Abate", olio su tavola dipinto, nel 1519, dal pittore toscano Jacopo Carucci o Carrucci, noto come Jacopo (da) Pontormo o semplicemente Pontormo (1494-1557). L'opera si trova presso la Galleria degli Uffizi, a Firenze.
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