San Giuseppe da Copertino, sacerdote

Oggi - 18 settembre 2024 - mercoledì della XXIV settimana del tempo ordinario, la Chiesa ricorda, tra i vari santi e beati, San Giuseppe da Copertino, sacerdote. Giuseppe, questo il suo nome di battesimo, nacque il 17 giugno 1603 a Copertino, non lontano da Lecce, nel Salento, la parte più meridionale della Puglia, appartenente al Vicereame di Napoli a sua volta sottoposto al Regno di Spagna (oggi in provincia di Lecce, regione Puglia). Venne al mondo in una stalla del castello dei locali marchesi, dall’umile serva Franceschina Panaca, in assenza del padre, Felice Desa, anch’egli inserviente nel maniero, che si era dato alla macchia per problemi di giustizia legati a debiti insoluti, lasciando la famiglia in povertà. Sua madre, donna forte e religiosa, si fece carico di lui tra mille difficoltà. Nel 1610, a sette anni, a costo di grandi sacrifici frequentò la scuola, ma dovette presto lasciarla perché una cancrena lo costrinse a letto per ben cinque anni, fino al 1615. In questo lungo periodo di sofferenza e forzata immobilità, ascoltando i racconti religiosi della devota madre, maturò il desiderio di camminare verso il Signore al modo di San Francesco e di vedere Assisi. Un giorno la mamma lo condusse, a bordo di un carretto, al Santuario di Santa Maria delle Grazie, nel vicino paese di Galatone. Qui, ricevuta l’unzione con l’olio della lampada votiva, guarì all’istante in modo prodigioso, potendo tornare a casa ristabilito e sulle proprie gambe. Accostatosi al mondo del lavoro, attraversò un lungo periodo d’insuccessi e delusioni in ogni campo, che lo temprarono e prepararono alla sua gloria futura. Verso il 1619, sui sedici anni, cominciò a fare l’apprendista calzolaio, ma l’esperienza si rivelò un vero fallimento. Si decise così ad ascoltare la propria vocazione religiosa, chiedendo di entrare tra i frati francescani Minori Osservanti, ma fu giudicato inadatto in tutto e rifiutato. In seguito, fu accettato come “fratello laico” tra i frati Cappuccini d’un vicino convento, che lo inviarono per l’anno di noviziato, nell’agosto 1620, a Martina Franca presso Taranto (oggi in provincia di Taranto, Puglia), ma, qualche mese dopo, fu rimandato a casa perché “inetto a qualsiasi mansione”. Uscito suo malgrado anche dai Cappuccini, si vergognò di tornare a Copertino e andò ospite presso lo zio materno Giambattista Panaca, frate francescano Conventuale in un altro convento dei pressi, dove apprese che suo padre latitante era morto e che la giustizia ora cercava lui, come erede dei debiti paterni. Fu necessario nasconderlo e il luogo più adatto sembrò una chiesetta dedicata alla Madonna, con annesso piccolo convento, nella vicina località La Grottella. Con la provvidenziale complicità del frate sacrista che gli passava un po’ di cibo, trascorse circa sei mesi nascosto in una piccola e decrepita spelonca addossata al Convento. Visse così finché il sacrista stesso si presentò allo zio, facendogli una buona relazione sul giovane, sempre applicato alle cose di Dio. Fatto sta che quest’ultimo, con l’aiuto di un altro zio francescano, mosso a compassione gli fece ottenere l’abito da terziario del proprio ordine religioso, che godeva allora dell’immunità giuridica dal “braccio secolare” della legge, in altre parole della giustizia civile. In cambio Giuseppe avrebbe fatto il servo in quel convento di campagna. Nel 1625, a ventidue anni, fu ammesso tra i “fratelli laici”, tra i frati cioè che emettono i voti, ma non sono ammessi al sacerdozio. Fece così il suo anno di noviziato da solo, sotto la guida dello zio, non senza penare per qualche ostacolo nell’apprendimento del latino e della Regola di San Francesco a memoria. Spesso lo sorprendevano di notte a leggere di nascosto o a farfugliare qualche preghiera in latino. Non gli mancava la buona volontà di curare lo studio, studiava di nascosto e si esercitava nello scrivere anche di notte. Gli zii, al vederlo così pieno di buona volontà, decisero di presentarlo ai frati come possibile chierico e, per intervento della Provvidenza, fu ammesso a continuare gli studi. Nell’anno di prova egli seppe sempre corrispondere, pur nei limiti delle sue capacità, all’obbedienza e fu capace di condurre vita austera. Nonostante le evidenti lacune e limiti culturali, fu ammesso alla professione religiosa grazie alla “sua bontà”. A essa non venne mai meno e non si concesse mai sconti, continuando con fedeltà il cammino che si faceva ancora più arduo. Grazie alla Divina Provvidenza, Giuseppe, ora frate, riconosciuto come persona scarsa di doti umane intellettuali e di una scienza adeguata, si preparò al sacerdozio. Fu presentato per ricevere gli Ordini Minori e sottoposto alla prima tonsura il 3 gennaio 1627, disponendosi poi a ricevere il Diaconato. I candidati erano sottoposti a un piccolo esame: leggere, cantare e spiegare il Vangelo. Lui si era preparato al limite delle proprie forze, imparando a memoria il brano del Vangelo più breve dell’anno liturgico, “La vera beatitudine” dell’Evangelista Luca, dove una donna dalla folla alzò la voce e disse a Gesù: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!», Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11, 27-28). Nell’imprevedibilità del disegno divino, il vescovo aprì la Bibbia a caso e a Giuseppe capitò proprio quel brano di Vangelo, l’unico che sapeva bene a memoria! Fu lodato dal vescovo anche per il suo buon canto e ricevette il diaconato il 20 marzo 1627. Rimaneva l’esame d’ammissione al sacerdozio, per cui c’erano cinque candidati per la provincia francescana di Puglia. I primi quattro avevano un curriculum regolare e conseguirono un buon risultato. Mentre stava per arrivare il turno di Giuseppe, un messaggero trafelato portò un’ambasciata urgente al vescovo: era il trasferimento del Pastore alla diocesi di Anglona-Tursi in Lucania. Fatto sta che la tensione del vescovo sugli esami si allentò e così pensò di allargare anche all’ultimo candidato rimasto, proprio lui, il giudizio positivo già dato agli altri. Immensa fu la gioia di Giuseppe che, consapevole di essere stato “aiutato” dal Cielo, fu ordinato sacerdote il 28 marzo 1628. L’intervento divino, segno di una predilezione tutta particolare, era ben chiaro. Così la consapevolezza d’aver ricevuto veramente tutto da Dio diventerà per Giuseppe uno stimolo a perseguire nella santità. I superiori lo lasciarono al convento della Grottella, consci delle sue limitate capacità, ma i dieci anni di apostolato che vi trascorse (1628-1638) furono invece ricchi di frutti spirituali, sia per Giuseppe, sia per i numerosi pellegrini e devoti che ricorrevano a lui, che ormai era chiamato “il Santo della Grottella”. Ciò nonostante, egli invitava tutti a ringraziare Maria e a chiedere la sua materna intercessione, abbandonandosi con fiducia tra le sue braccia. Giuseppe si distingueva per lo spirito di preghiera alla quale dedicava molte ore del giorno. Il Signore gli concesse anche doni straordinari come estasi e levitazioni che confondevano la sua grande umiltà, facendogli evitare, per quanto possibile, di mostrarsi o rendere pubblica la notizia. Gli bastava un solo richiamo alle cose divine, attraverso una lettura, un salmo, un’immagine religiosa per essere “lanciato fuori di sé” - come lui diceva - in altre parole per andare in estasi. Inevitabilmente, il popolo cominciò a conoscere questi fenomeni, per cui spesso si ritrovava con il saio tagliuzzato dai devoti che ne facevano reliquie, ma anche gli oggetti da lui usati o semplicemente toccati erano capaci di “fare miracoli”. Il padre provinciale, preoccupato da tanto clamore, pensò di mandarlo a visitare tutti i conventi della provincia religiosa per accrescere la devozione e la preghiera dei frati. Fu l’inizio del suo Calvario. Al ritorno a Copertino, trovò un perentorio ordine del Sant’Uffizio di presentarsi presso quel tribunale di Napoli, perché accusato di “messianismo”. Giuseppe obbedì pur con fatica e superò tutte le prove previste, perché i suoi costumi e la sua dottrina erano irreprensibili. Tuttavia ricevette l’ingiunzione di essere trasferito in un convento fuori della sua zona e di regolare osservanza. Così, sempre per intercessione della Provvidenza, che esaudiva in questo modo il suo antico sogno fanciullesco, fu mandato ad Assisi, nello Stato della Chiesa (oggi in provincia di Perugia, regione Umbria), dove, al contrario di quanto speravano le autorità, la sua popolarità aumentò. Giuseppe visse qui per quindici anni, chiuso in tre stanzette a ridosso della selva, la sua giornata era un lungo colloquio con Dio, culminante nella celebrazione eucaristica nella cappella del vecchio noviziato. Era nella Santa Messa che Dio mostrava in lui lo splendore della sua potenza e dei suoi misteri rivelati ai piccoli. Giuseppe, infatti, si sollevava in alto staccandosi da terra, cadeva con la faccia a terra, ballava, piangeva e gridava. A chi si meravigliava di queste strane manifestazioni, spiegava: “Le persone che amano Dio sono come gli ubriachi, che non stanno in sé e perciò cantano, ballano e fanno cose simili”. Giuseppe non amava queste manifestazioni esteriori della grazia, che lo esponevano alla curiosità della gente e quasi si scusava dicendosi affetto da una malattia ignota, mentre pregava il Signore di togliergli ogni manifestazione esterna, ma non fu esaudito. La mattina del 23 luglio 1653, al termine della celebrazione liturgica, fu chiamato dal suo superiore in portineria, dove lo attendeva l’Inquisitore Generale dell’Umbria che gli annunciò solennemente il suo trasferimento. Rimase impietrito finché il suo superiore non gli ricordò i meriti della Santa Obbedienza, al che Giuseppe si mise in ginocchio per baciare i piedi del frate inquisitore Domenicano, ascoltando rassegnato la sentenza del tribunale, dopo di che corse verso la carrozza che doveva immediatamente accompagnarlo alla nuova destinazione, tra quattro soldati di scorta. Non aveva nulla con sé. Un ultimo sguardo all’amata Assisi e la carrozza si mosse per una meta ignota. Questa si rivelò essere Pietrarubbia, un paesino nascosto tra i boschi di Carpegna, nelle Marche dello Stato Pontificio (oggi in provincia di Pesaro e Urbino, regione Marche), presso il locale convento dei frati Cappuccini. La sentenza stabiliva anche che non avrebbe potuto parlare con nessuno, scrivere a nessuno e non rivelare la propria presenza, mentre le relazioni personali erano riservate ai soli cappuccini del Convento. Gli ordini sulla sua vita sarebbero stati affissi sulla porta del refettorio e della sua celletta, mentre chi avesse tentato di contravvenire a questi ordini, sarebbe stato addirittura scomunicato. Nonostante tutto Giuseppe era sereno e ai Cappuccini marchigiani non sembrava vero di avere tra loro quel Giuseppe da Copertino di cui tanto avevano sentito parlare. La sua cella diventò ben presto un luogo d’incontri spirituali in cui si trattavano argomenti di comune edificazione. Lui non accusava mai, non si lamentava, semmai si rallegrava che Dio lo avesse sequestrato dal mondo e levato dalla curiosità che egli tanto aborriva. Nonostante le tante precauzioni, però, la notizia che Giuseppe era a Pietrarubbia non tardò a circolare e molta gente si riversò nel piccolo paese tra le colline Marchigiane. Per suo tramite, grazie e miracoli erano profusi con dovizia anche lì. L’Inquisizione, d’altra parte, non aveva dato disposizioni a riguardo della Messa, che egli continuò a celebrare in pubblico, ma anche questo periodo ebbe termine. Il vicario generale del vescovo di Urbino arrivò a Pietrarubbia con l’ordine di condurlo in altro luogo segreto. Ecco la fede di Giuseppe da Copertino: la grazia lo aveva plasmato fino a farlo giungere alla perfetta assimilazione con la volontà di Dio. Egli accettava tutto per amore del Padre Celeste. La sua ascesi era tutta volta a purificare e trasfigurare l’intera esistenza per evitare il ripiegamento su di sé. Alla scuola di San Francesco, assunse il Cristo come centro attorno al quale far ruotare tutta la sua esistenza e ordinare ogni aspetto della propria personalità. Viveva un amore incondizionato alla Chiesa, sempre disponibile alla pronta obbedienza, accettando anche l’incredulità e il sospetto di alcuni ministri di Dio. Grande era la sua devozione e tenerezza per la Madre di Dio, da lui contemplata nell’immagine custodita nel convento della Grottella. Era una devozione discreta e semplice. Alle feste della Madonna si preparava con fervore e seguendo la sua fantasia con canzoncine e poesie. Copertino, la Grottella, Napoli, Assisi, Pietrarubbia, poi ancora Fossombrone (Pesaro e Urbino, Marche) e infine Osimo (Ancona, Marche), sono i conventi dove soggiornò. Durante l’ultimo trasferimento a Osimo, presso Ancona, vedendo in lontananza la basilica di Loreto esclamò: “Oh, che vedo! Quanti angeli vanno e vengono dal cielo! Non li vedete? Guardateci, guardateci bene!”, volando anche lui fino a un mandorlo nella campagna, traboccante di gioia e ritornato in sé, cominciò a cantare e pregare. Arrivarono la sera del 9 luglio 1663 al Convento di San Francesco in Osimo, entrarono e lui sospirò di soddisfazione. Aveva trovato la sua sede terrena definitiva e il Signore stesso glielo aveva fatto capire. Rifulgono nella figura di Giuseppe da Copertino le meraviglie che Dio opera con coloro che si consegnano completamente nelle sue mani senza opporre resistenza, sicuri della Provvidenza del Padre Celeste. Giuseppe era affabile, ricco di gioia che esprimeva nel canto, nella danza, nelle composizioni musicali o poesie: in punto di morte chiese ai frati che cantassero con lui. Un uomo tutto donato e libero, liberato dalla grazia di Dio dalla quale si era lasciato lavorare, libero nell’Obbedienza. Morì a Osimo il 18 settembre 1663, quando, un quarto d’ora prima di mezzanotte, il suo volto s’illuminò e finì la sua vita terrena con un lungo e ineffabile sorriso. Fu seppellito nella stessa città, nella chiesa del predetto convento di San Francesco. Nella seconda metà del XVIII secolo, in occasione della sua canonizzazione, si è dedicato a lui ed elevato a basilica quel luogo sacro, dove le sue spoglie ancora riposano. Fu beatificato da papa Benedetto XIV il 24 febbraio 1753 e dichiarato santo dal pontefice Clemente XIII il 16 luglio 1767. Nella devozione cattolica viene chiamato il “Santo dei voli”, a motivo delle levitazioni che secondo le cronache del tempo compiva in stato di estasi.
Immagine: "San Giuseppe da Copertino si eleva in volo alla vista della Basilica di Loreto", olio su tela dipinto, nel 1767 circa, dal pittore romano Ludovico Mazzanti (1686-1775). L'opera si trova presso il santuario dedicato al santo ad Osimo (in provincia di Ancona, regione Marche).
Roberto Moggi
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