Siente, vide e ttace,si vuó vivere ’nsanta pace

Siente, vide e ttace,si vuó vivere ’nsanta pace.
Se vuoi vivere tranquillo è meglio tacere su tutto ciò che si sente e si vede.
Non vedere, non sentire e non parlare, esortazioni che il proverbio ci rammenta per amor di quiete, per non farci coinvolgere in questioni che alcuni sembrano cercare col lanternino.
Un detto che richiama la famosa immagine delle tre scimmiette, che si tappano occhi, bocca e orecchie, che ha avuto origine con una scultura del 17 ° secolo delle "tre scimmie sagge" su una porta del santuario Tōshō-gū a Nikkō, in Giappone, che è stata interpretata in vari modi:
Così che tra i buddisti, il proverbio esorta a una buona coltivazione, non solo della mente, ma anche della parola e dell'azione.
Mentre, nel mondo occidentale, sia il proverbio che l'immagine sono spesso usati per riferirsi a una mancanza di responsabilità morale, da parte di persone che guardano dall'altra parte su azioni malvagie e, infine, all'interno di un ambiente criminale, assume l'aspetto di come deve essere osservata l'omertà.
Tanto per dire come un certo comportamento può diventare relativo, a seconda dello scenario in cui è tenuto, anche se il senso migliore che gli si attribuisce, nella contrapposizione tra bene e male, è al secondo che è riferita l'inazione, anche se, come accennato, ignorarlo può significare rendersene complici.
"Non vedo, non sento e non parlo" rappresenta un principio molto antico e lo troviamo nei Dialoghi di Confucio, scritti in Cina durante il Periodo delle primavere e degli autunni e il Periodo dei regni combattenti (circa 479 a.C. - 221 a.C.), in cui leggiamo: "Non guardare ciò che è contrario alla correttezza; non ascoltare ciò che è contrario alla correttezza; non parlare di ciò che è contrario alla correttezza; non fare movimenti contrari alla correttezza."
Il santuario menzionato sopra è dovuto al fatto che, verso l'VIII secolo, dei monaci buddisti portarono questo proverbio in Giappone., che venne tradotto così: "mizaru, kikazaru, iwazaru", ovvero: "non guardare, non ascoltare, non dire". -zu/-zaru sono dei suffissi comuni utilizzati per la forma negativa di un verbo. -zaru, però, è anche un modo arcaico per indicare la scimmia. Non serve neanche aggiungere che è questo che ha portato ad associare il proverbio con le scimmie.
Quando il non vedere e il non udire, si traducono nell'ignorare il male fatto ad altri, è un'attività che può risultare semplice a chi è poco fornito di empatia, ma se lo si subisce, assume un ben altro aspetto, perché può avvelenare, non solo la giornata, ma spesso anche la vita, se l'impulso più che spontaneo di reagire con rabbia, si protrae poi nel tempo, senza essere sopito.
E, al riguardo, riportiamo una storia edificante su come può essere trasformata una reazione, quando si subisce una qualsiasi offesa.
Si racconta che una volta, un uomo si avvicinò al Buddha e, senza dire una parola, gli sputò in faccia, facendo imbestialire i suoi discepoli, con Ananda, il prediletto, che intendeva passare a vie di fatto e chiese al Buddha:
"Dammi il permesso di dare a quest’uomo ciò che merita!"
Ma l'illuminato rispose, asciugandosi la faccia:
"No. Io parlerò con lui."
E unendo i palmi delle mani in segno di riverenza, disse all’uomo:
"Grazie. Con il tuo gesto mi hai permesso di vedere che la rabbia mi ha abbandonato. Ti sono estremamente grato. Il tuo gesto ha anche dimostrato che Ananda e gli altri discepoli possono essere ancora assaliti dalla rabbia. Grazie! Ti siamo molto grati!"
Insomma, anche uno sputo in faccia diventa, per chi lo subisce, un ottimo espediente per fare il punto della situazione
Detto, tra noi, beato chi ci riesce, ma resta pur sempre un esperimento da prendere in considerazione, per poter misurare il distacco che siamo riusciti ad acquisire, nel reagire ai torti che subiamo.
Sempre nello scenario in cui si può rispettare o meno il comportamento ricordato dal proverbio, ho conosciuto piuttosto superficialmente un mio vicino, su per giù coetaneo, che per integrare la pensione e pagare il mutuo, partiva alle due di notte per portare i cornetti nei bar, con tutta l'ammirazione che provai e il rammarico successivo, quando seppi che il Covid se lo era portato via.
Fatto sta che parlando del più e del meno con un altro vicino, la cui abitazione confina con quella del defunto, rammentai la triste fine di quest'ultimo, per l'impressione che mi aveva fatto la sua vicenda.
Di contro a quanto espressi, l'interlocutore non manifestò molta simpatia per l'oggetto della conversazione e mi informò che quella persona aveva avuto una relazione extraconiugale, avendo ascoltato una conversazione telefonica fatta fuori casa dal figlio del defunto, che insultava la donna che aveva telefonato per cercare suo padre.
Sia l'interlocutore che io, non avevamo alcun diritto di sapere e ancora meno di divulgare, i fatti intimi di una persona estranea a entrambi, mentre la mia controparte entrò nella lista delle persone a cui non confidare nemmeno il colore delle scarpe.
In quanti "circoli di lavandaie" ci siamo imbattuti nella vita? Cricche nelle quali il non vedere e il non udire si trasformano nello spiare, e il non parlare è sostituito dal divulgare ai quattro venti i fatti altrui.
Ci pensano poi certi rotocalchi a presentare, come un diritto all'informazione dei lettori, pettegolezzi, maldicenze e dicerie tradotti in un più edulcorante gossip, che convince i più influenzabili che farsi i fatti propri non è à la page, rispetto a un comportamento retto, discreto e dignitoso.
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