Oggi - 14 luglio 2024 - XV domenica del Tempo Ordinario, Pasqua settimanale che ha la precedenza sulle altre celebrazioni, la Chiesa officia la memoria facoltativa di San Camillo de Lellis, sacerdote. Camillo nacque il 25 maggio 1550 a Bucchianico, paese all’epoca sede di un marchesato appartenente al Regno di Napoli (oggi in provincia di Chieti, regione Abruzzo), dal “capitano di ventura” Giovanni de Lellis. Era un bambino forte e sano, ma la sua istruzione lasciò molto a desiderare, non fu mai educato a dovere e crebbe refrattario alle regole. Nel 1563, a soli tredici anni, iniziò ad accompagnare il padre nei suoi trasferimenti da un presidio militare all’altro del regno, assimilando da lui e dall’ambiente rude una passione distruttiva per il gioco dei dadi e delle carte, oltre ad un atteggiamento aggressivo e volgare. In seguito, per alcuni anni fu soldato sulle orme del genitore, dedicandosi al mestiere delle armi, al soldo ora di Venezia ora di Napoli, rischiando la vita nelle battaglie e nelle risse e scommettendo nei giochi d’azzardo tutti i soldi guadagnati. Nel 1574, imbarcatosi per questioni di servizio, scampò a un naufragio e, sbarcato a Napoli, fu preso da una rinnovata frenesia per il gioco, talmente alta che il termine “giocarsi la camicia” non fu per lui un mero modo di dire. A un certo punto, gli ingaggi militari finirono e la fame bussò alla sua porta, tanto che all’età di soli ventiquattro anni era un uomo finito. Finì randagio come un cane, vagabondando senza meta, con vergogna, elemosinando davanti alle chiese con grande imbarazzo. Giunto a Manfredonia, porto sul promontorio del Gargano (oggi in provincia di Foggia, regione Puglia), profondamente umiliato dall’essersi ridotto a mendicare, provò a cambiare vita e si mise a fare il manovale presso il costruendo convento dei Frati Cappuccini, conducendo due muli che trasportavano carichi di pietre, calce e acqua per i muratori. L’occasione fu provvidenziale. Infatti, la vicinanza di quei buoni frati, appena riformati e ancora nel loro pieno fervore, non gli fu indifferente. Le prediche del padre guardiano o l’insperata fiducia ricevuta in un momento di umiliazione profonda, gli diedero comunque l'opportunità per ritrovare se stesso e Dio. Il 2 febbraio dell’Anno Santo 1575, quand’era vicino ai venticinque anni, intraprese un pellegrinaggio di un giorno, a dorso di mulo, fino al convento dei Cappuccini della vicina San Giovanni Rotondo, sui monti dell’entroterra. Qui un frate gli spiegò che Dio era tutto, il resto era nulla e che bisognava soltanto pensare a salvare l’anima che non muore. Durante il viaggio di ritorno, Camillo meditava. Guardò onestamente alla sua vita precedente, trovandola senza senso e la misericordia di Dio fece il resto. Quest'uomo alto quasi due metri, cocciuto com'è il carattere abruzzese, a un tratto scese di sella e si buttò a terra piangendo, esclamando tra i singhiozzi: “… Signore, ho peccato. Perdona a questo gran peccatore! Me infelice che per tanti anni non ti ho conosciuto e non ti ho amato. Signore, dammi tempo per piangere a lungo i miei peccati …”. Al tempo stesso promise: “… Non più mondo, non più mondo! …”. Da allora, Camillo considerò quel giorno come quello della sua conversione. A Manfredonia, completamente infervorato di Dio, chiese di diventare Cappuccino, ma non fu accettato in convento per una piaga al piede che non cessava di suppurare. Alla metà d’ottobre del 1579 giunse a Roma, dove la dolorosa ulcerazione lo costrinse al ricovero nell'ospedale San Giacomo, detto “degli Incurabili”, dove si trattavano le più spaventose malattie. Vi era già stato per lo stesso motivo, in passato, quand’era un soldataccio scapigliato, e vi aveva anche accudito i malati, ma facendolo solo dietro ricompensa, per pagarsi le cure e per avere qualche soldo da giocare con i barcaioli del Tevere. Camillo vi entrò, questa volta, con rinnovato spirito, con un animo nuovo e con le mani e il cuore pronti a servire gratuitamente i sofferenti, come il Vangelo insegna, conscio che in quel nosocomio giungevano i malati più ripugnanti, i rifiuti della società, spesso orribili a vedersi, che erano addirittura scaricati sulla porta dell’edificio. Nel XVI secolo, le cure ai malati erano normalmente in mano a inservienti prezzolati, dei quali alcuni erano delinquenti costretti a quel lavoro con la forza e altri per non aver diversa possibilità di guadagno. Tutti agivano indistintamente nella mancanza di competenza di alcun genere, senza osservanza delle più elementari norme igienico-sanitarie, facendo il minimo e, cosa altrettanto grave, senza alcun barlume di pietà e di amorevolezza verso i sofferenti. Non sono esagerazioni, perché riscontri simili sono pervenuti anche da altri ospedali dell’epoca. Così, pian piano, in tutto l’ospedale “degli Incurabili” Camillo - così diverso da tutti - divenne noto per la sua fede e la sua carità, tanto da essere ben presto nominato “Maestro di casa”, cioè responsabile dell’andamento economico e organizzativo del nosocomio. In questa veste, cominciò a mettere ordine in tutti i settori. Notte e giorno era solito comparire durante le varie attività, quando nessuno se lo aspettava, richiamando, rimproverando e costringendo ognuno a fare il proprio dovere e bene. Controllava gli acquisti, litigava con i venditori, rimandava indietro le partite di merce avariata. Senza sosta esortava gli inservienti e spiegava loro che i poveri infermi erano la pupilla e il cuore di Dio e che ciò che si faceva a quegli infelici era fatto a Dio stesso. Un pensiero fisso lo ossessionava, quello di sostituire tutti i “mercenari” con persone disposte ad accudire volontariamente i malati e solo per amore. Desiderava avere con sé gente che, non per mercede, ma spontaneamente e per amore di Dio servisse i malati con quell’amorevolezza che hanno le madri verso i propri figli. Questo era il suo evangelico progetto, che, tuttavia, una volta reso noto, destò subito preoccupazione nei potenti che lucravano da quella triste situazione. Ci fu chi temette che interessi e comode abitudini sarebbero stati messi in discussione, altri sospettarono che Camillo avrebbe finito con l’impadronirsi dell’ospedale e, altri ancora, pur ben ispirati, considerarono il progetto irrealizzabile. Fu astutamente interessato anche Filippo Neri (1515-1595), futuro santo, che era il confessore di Camillo, al fine di farlo desistere dal suo progetto rivoluzionario. Questi, però, ispirato divinamente in sogno, non solo non cercò di fermare il progetto, ma lo benedisse. Camillo organizzò così un gruppo di volontari al servizio dei malati, nei quali riconoscevano Cristo stesso, cui impose nome di “Compagnia di uomini da bene”. Ciò nondimeno, pesantemente osteggiato, Camillo e i suoi compagni furono infine costretti a lasciare l’ospedale e si ritrovarono in una poverissima casetta, dove non avevano che due coperte in tre e la notte dovevano fare a turno per coprirsi. Cominciarono allora, questa volta benevolmente accolti, la loro libera attività caritatevole nel grande e glorioso ospedale romano di Santo Spirito, noto anche come “Hospitium Apostolorum”, voluto nel 1200 direttamente dal Papa Innocenzo III (dal 1198 al 1216) e da lui affidato ai religiosi di Santo Spirito. Alcuni secoli dopo, il Pontefice Sisto IV (dal 1471 al 1484) rinnovò il luogo di cura, con una tale magnificenza da riproporre almeno idealmente il valore originario: “Culto d’amore dovuto a Cristo, Dio e uomo, ammalato nei poveri”. Purtroppo, assieme alla gloria della Chiesa, anche in quest’ospedale era visibile la miseria terrena. Gli uomini che vi erano preposti si mostravano di fatto indegni di quella solenne struttura, dove il problema dei mercenari era simile a quello degli altri ospedali, i problemi igienici e il sudiciume umiliavano notevolmente quello splendore, e l’auspicato volontariato si tramutava in disordine. A questo drammatico stato di cose, gradualmente, pose fine Camillo con i suoi compagni, che in quel luogo di cura lavorarono duramente per trent’anni. Per essi l’ospedale era tutto e ancora di più lo erano gli ammalati, nei quali vedevano e servivano Cristo stesso. Nel servizio iniziarono a lasciare il segno del carisma che Camillo andava trasmettendo ai suoi, la tenerezza. Non era, infatti, strano incontrarlo nelle corsie in atteggiamenti di vera e propria “adorazione” dei malati, tanto era il rispetto che ne aveva. Un testimone riferì di averlo visto: “… stare ingenocchiato vicino a un povero infermo ch’aveva un così pestifero e puzzolento canchero in bocca, che non era possibile tolerarsi tanto fetore, e, nonostante tutto esso Camillo standogli appresso a fiato a fiato, gli diceva parole di tanto affetto, che pareva fosse impazzito dell’amor suo, chiamandolo particolarmente: Signor mio, anima mia, che posso io fare per vostro servigio? Pensando egli che fosse l’amato suo Signore Giesù Christo ...” (dagli Atti di Canonizzazione). Nel 1586, la “Compagnia di uomini da bene” ottenne l’approvazione dal Papa Sisto V (dal 1585 al 1590), che autorizzò Camillo e i laici che lo seguivano a portare una tunica nera con una croce rossa sul petto. Nel 1591, infine, Papa Gregorio XIV (dal 1590 al 1591) diede alla “Compagnia” lo status di Ordine religioso, con il nome di “Ordine dei Ministri degli Infermi” (detti in suo onore “Camilliani”), scelto da Camillo per indicare che i suoi membri dovevano avere come modello Cristo, che disse: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire e sacrificare la vita”. Quando la sera tornava in convento, chiamava i suoi frati in capitolo, metteva un letto in mezzo alla sala, ammucchiava materassi e coperte, chiedeva a uno di distendersi e poi insegnava agli altri come si rifà un letto senza disturbare troppo il malato, come si cambia la biancheria, come bisogna atteggiare il volto verso i sofferenti. Poi li faceva provare e riprovare. Ogni tanto gridava: “… Più cuore, voglio vedere più affetto materno! …”, oppure: “… Più anima nelle mani! …”. Poiché il degrado e la trascuratezza negli ospedali non erano solo sanitari, ma anche morali, Camillo chiese anche a qualche sacerdote di seguirlo e decise lui stesso di farsi prete. Dopo alcuni studi molto sommari, il 26 maggio 1584, fu ordinato sacerdote. Illetterato e capace di accedere all’ordinazione sacerdotale solo per i meriti acquisiti “sul campo”, divenne, di fatto, il fondatore dell’assistenza infermieristica, la cui testimonianza ci è lasciata nelle “Regole per ben servire i malati” (Archivio di Stato di Milano), una preziosa testimonianza di tecniche infermieristiche finalizzate al benessere del malato. Col tempo, andavano aumentando i giovani che desideravano condividere la sua vita. Camillo ebbe così la possibilità di “occupare” altri ospedali. Giunse fino a Napoli, Genova, Milano, Mantova. Anzi, fu proprio a Milano che scoppiò la dura questione degli ospedali trascurati. Quando Camillo e i suoi cominceranno a lavorare nell’ospedale maggiore di Milano, la “Ca’ Granda”, troveranno che i luoghi di degenza erano in tale stato di putridume e sudiciume da potersi considerare essi stessi “causa di morte”. Allora egli, di testa sua, senza consultarsi con nessuno, colse l’occasione propizia per farsi affidare tutto l’ospedale, per curare cioè non solo l’assistenza ai malati ma l’intera gestione materiale di ogni ambiente. Per Camillo, qualunque miglioramento riguardasse anche solo lontanamente i suoi poveri, gli ammalati, era sacro e da accogliere. Ormai prossimo al termine della sua vita, Camillo si ritrovò con un Ordine che guidava ben quattordici conventi e otto ospedali (di cui ben quattro sotto la sua completa responsabilità), oltre che con ottanta novizi e duecentoquarantadue religiosi professi dell’Ordine dei Ministri degli Infermi. Stanco e malato, sentendo ormai imminente la sua fine terrena, Camillo dettò il suo testamento per lasciare in eredità tutto se stesso. Il testamento è una totale e minuziosa consegna di se medesimo: “… Io Camillo de Lellis … lascio il mio corpo di terra alla medesima terra di dove è stato prodotto … Lascio al Demonio, tentatore iniquo, tutti i peccati e tutte le offese che ho commesso contro Dio e mi pento sin dentro l’anima … Item lascio al mondo tutte le vanità … Item lascio et dono l’anima mia e ciascuna potestà di quella al mio amato Gesù e alla sua Santissima Madre … Finalmente lascio a Giesù Christo Crocefisso tutto me stesso in anima e corpo e confido che, per sua immensa bontà e misericordia, mi riceva e mi perdoni come perdonò alla Maddalena ...”. Riappacificato con la vita, spirò santamente a Roma il 14 luglio 1614 a sessantaquattro anni e le sue spoglie furono inumate nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Roma, nel rione Colonna che si affaccia sulla piazza omonima, ove ancora si trovano. Papa Benedetto XIV lo proclamò santo nel 1746 e di lui affermò "che è stato iniziatore di una nuova scuola di carità". Papa Leone XIV lo proclamò patrono degli ospedali e dei malati, Pio XI patrono degli infermieri e San Paolo VI patrono della Sanità Militare italiana.
IMMAGINE: <<"San Camillo de Lellis", fotografia in bianco e nero dell'olio su tela dipinto tra il 1755 ed il 1758 circa dal pittore piacentino Ferrari Paolo (1705-1792). L'opera si trova nella chiesa madre di Pontenure (in provincia di Piacenza, regione Emilia-Romagna)>>.
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