Sant'Antonio Maria Gianelli

Il 7 giugno, la Chiesa ricorda, tra i vari santi e beati, Sant'Antonio Maria Gianelli, vescovo e fondatore. Antonio Maria, questi i suoi nomi di battesimo, nacque il 12 aprile 1789 nel piccolo borgo di Cereta, frazione del comune di Carro, quasi a metà strada tra La Spezia e Genova, quest’ultima l’allora capitale dell’omonima “Serenissima” repubblica (oggi in provincia della Spezia, regione Liguria). Secondo dei sei figli di una povera famiglia di contadini profondamente cattolici, crebbe ubbidiente e pio e, benché occupato tutto il giorno nei lavori dei campi e nella conduzione del piccolo gregge familiare, imparò presto a recitare il rosario frequentemente. In chiesa ascoltava volentieri le prediche del parroco, ripetendole ai compagni, che l’avevano soprannominato "il predicatore". Benché i suoi non avessero i necessari mezzi economici e lui fosse costretto ad aiutare in campagna, grazie al suo parroco, prese a frequentare la scuola popolare da questo organizzata in una parrocchia della località Castello di Carro, la parte alta del paese, percorrendo a piedi un lungo tragitto per recarvisi ogni giorno. Studiava con passione e facilità, facendo grandi progressi, nonostante continuasse comunque il suo duro lavoro, non dimenticando mai di portare a casa, tornando da scuola, una fascina di legna raccolta lungo la strada. Nel 1808, diciottenne, fu accolto in seminario sebbene i genitori non avessero mezzi finanziari convenienti, distinguendosi subito per lo zelo e la pronta ubbidienza ai superiori. La devozione all'Eucaristia e alla Santissima Vergine costituiva la sua dote più preziosa, alla quale univa una così coscienziosa applicazione allo studio che l'arcivescovo di Genova lo ammise al suddiaconato già nel 1811, ancora prima che iniziasse il corso di teologia, concedendogli anche il permesso di predicare. Nel 1812 fu ordinato sacerdote e, a metà del secondo anno di teologia, nominato vicario della parrocchia di San Matteo a Genova, in pieno centro storico. Non bastando ciò ad appagare la sua sollecitudine apostolica, si iscrisse alla “Congregazione dei Missionari Suburbani”, istituita nel 1713 nella stessa città, per dedicarsi con maggior lena alla predicazione popolare. Nel 1816, oltre che alla sua attività pastorale, si dedicò per una decina d'anni all'insegnamento della retorica, prima nel collegio di Carcare (provincia di Savona, Liguria) e, un anno dopo, nel seminario di Genova. Nella veste di professore, per favorire l'emulazione e il profitto degli allievi, istituì una “Accademia di eloquenza” e un'altra chiamata “degli ingenui”, allo scopo di ravvivare l'amore alle lettere e, al termine d’ogni corso di studio, gli studenti davano un saggio della loro eloquenza umanistica. Nonostante i gravosi impegni, si dedicava inoltre alla predicazione delle missioni popolari e degli esercizi spirituali, seguitissimo dal popolo, alla direzione spirituale di vari Istituti religiosi della capitale ligure e alla confessione. A quest’ultima attese con straordinario zelo, al punto da uscirne quasi sempre affranto, tant'erano numerosi i penitenti che ricorrevano a lui. Agli sposi consigliava sempre la confessione prima delle nozze e ai malati, che visitava sovente, anche senza essere chiamato, suggeriva di ricevere per tempo i sacramenti. Il cardinale Luigi Lambruschini (1776-1854), nuovo arcivescovo di Genova dal 3 ottobre 1819, avendo scorto la grandezza della sua anima, gli propose di assumere la direzione della parrocchia vacante di Sampierdarena, alle porte della città, ma egli non accettò, preferendo dedicarsi alla predicazione e alla carità. Dal 1821 al 1826, fu direttore della locale Confraternita della Santa Croce, con la quale si prodigò assiduamente a fare gran bene a persone d’ogni condizione sociale. Lo stesso anno 1826, si rese libera la parrocchia San Giovanni Battista di Chiavari (Genova), della quale accettò l’incarico. Da novello arciprete, adottò un metodo di vita tale che gli consentisse la propria santificazione e il maggior bene dei parrocchiani, consistente nell’alzarsi di buon mattino per pregare, confessare e celebrare la messa. Dopo pranzo non prendeva quasi mai riposo, per occuparsi degli ammalati e delle altre incombenze che gli provenivano dall'altro ufficio assegnatogli, quello di vicario della zona orientale dell'arcidiocesi. Non usciva mai per diletto personale, ma soltanto per visitare i carcerati, gli ammalati in ospedale e le case religiose, tra le quali il Conservatorio delle Suore Figlie di San Giuseppe. Di notte, poi, accorciava le ore del sonno per attendere a certe particolari devozioni e al disbrigo della corrispondenza. Nei mesi estivi, teneva corsi di predicazione e ritiri, mentre per i poveri reputava leggero qualsiasi sacrificio, facendo anche distribuire loro le elemosine alla porta della canonica, ma ai più bisognosi la portava lui stesso quando andava a visitarli nelle loro case. A Chiavari legò il suo nome all'istituzione del seminario, che condusse a termine nel 1826 e in cui ebbe l'incarico di prefetto degli studi e di professore di eloquenza. All'inizio del 1829, scelse personalmente dodici tra le sue più pie e fedeli “Discepole penitenti”, delle quali aveva individuato con chiarezza la forte vocazione spirituale, conducendole a far vita religiosa comune in una piccola casa, con il compito d’attendere all'istruzione della gioventù e alla cura dei malati negli ospedali e nei lazzaretti. Nacque così quello che sarà noto come “Istituto delle suore Figlie di Maria Santissima dell'Orto”, alla quale il suo nome rimase indissolubilmente legato, allo scopo di provvedere buone educatrici e maestre all'Ospizio di Carità e Lavoro, aperto in città sotto gli auspici della “Società Economica” che pure aveva creato. Sotto la sua guida, l'Istituto crebbe e si diffuse in breve per tutta la Liguria. Il municipio genovese gli mise a disposizione una larga striscia di terreno presso il mare, perché potesse iniziare, nell’aprile 1837, la costruzione del Conservatorio, necessaria per raccogliere le suore nei ritiri annuali, le novizie, le educande e le inferme. Era sempre all’opera, nessuna umana considerazione poteva vincerlo e alcuna fatica di viaggio stancarlo. La sua giornata, in tempo di missione, era un miracolo di operosità. Volendo rendere fruttuoso il suo apostolato, s’intratteneva in prolungata preghiera per la conversione dei peccatori. Soleva anche promuovere delle pubbliche processioni di penitenza. Nel 1835, a Genova scoppiò il flagello del colera e, nella vicina Chiavari, per il continuo affluire di profughi, la gente viveva in grande trepidazione. Egli ne approfittò per inculcare a tutti la consuetudine della preghiera e della frequenza ai sacramenti. Per placare la divina giustizia e ottenere la liberazione dal terribile flagello, si offerse al Signore come “vittima”, organizzando una processione di penitenza con il prodigioso storico crocefisso della sua parrocchia, molto venerato in tutta Chiavari. Dispose che questo rimanesse esposto alla pubblica venerazione per ottanta giorni consecutivi, anche di notte, al termine dei quali organizzò un'altra processione di ringraziamento, giacché la cittadina era stata effettivamente risparmiata dal morbo. Nell'ottobre 1837, mentre si trovava in missione pastorale, gli fu comunicato che era stato nominato vescovo di Bobbio, non lungi da Piacenza, nell’allora Regno di Sardegna (oggi provincia di Piacenza, regione Emilia Romagna). La proposta era stata formulata dal ministro degli esteri di quel Regno, Conte Clemente Solaro della Margherita ed era gradita anche dal re Carlo Alberto di Savoia. Il cielo lo destinava a fatiche più gravi, proprio quando egli, dopo dodici anni di vita parrocchiale, pensava di dedicarsi interamente alla predicazione. Fu così consacrato vescovo nel duomo di Genova. Prima di prendere possesso della diocesi, Antonio Maria distribuì ai poveri i proventi della sua ex parrocchia, perché riteneva che non gli appartenessero. Anche da vescovo egli tenne il semplice modo di vita che aveva adottato da parroco. Fu di una straordinaria semplicità nel tratto e nel comportamento. Amante sincero della povertà non volle per alloggio che due semplici camere, una per la notte e l'altra come studio e ricevimento. Uno dei suoi primi pensieri fu di visitare tutta la diocesi, che i predecessori avevano trascurato per quasi vent’anni. Per tre volte la percorse interamente, con diligenza, cercando di togliere abusi, rendere più frequente la predicazione, regolare la scuola di catechismo e sollecitare l'amministrazione dei sacramenti. Tenne due sinodi diocesani, riordinò il seminario negli studi e nella disciplina, incrementò il culto di San Colombano, patrono di Bobbio, facendone eseguire anche la ricognizione delle ossa. Nel 1838, inoltre, fondò la “Congregazione dei Missionari Oblati di Sant'Alfonso Maria de' Liguori”, che, però, finì per sciogliersi nel 1856, a causa delle tristi vicende politiche del periodo. Fece venire le sue suore Figlie di Maria Santissima dell'Orto alla direzione del locale ospedale e delle scuole femminili della città. Durante il suo episcopato fu soprattutto divorato dallo zelo per le missioni che predicò un po' ovunque, con grandi frutti spirituali. A tanto lavoro non resse la sua fibra che pure era forte. Nel 1845 fu assalito da una forte febbre da cui non si riprese più. Nella primavera del 1846, per consiglio dei medici, si recò a Piacenza ospite del vescovo locale e qui morì il 7 giugno 1846, dopo aver ricevuto il viatico. I suoi funerali furono un'apoteosi. Il suo corpo fu sepolto nella cattedrale di Bobbio. Papa Pio XI lo beatificò il 19 aprile 1925 e il Servo di Dio papa Pio XII lo canonizzò il 21 ottobre 1951.
Roberto Moggi
Home page   ARGOMENTI
 

Commenti