Oggi
- 2 maggio 2024 - giovedì della V settimana di Pasqua, la Chiesa
celebra la memoria obbligatoria di Sant'Atanasio, vescovo e dottore
della Chiesa. Athanásios o Athanasius, questo il suo nome
rispettivamente in greco (traslitterato nel nostro alfabeto) e latino,
spesso indicato con le specificazioni “il Grande” o “di Alessandria”,
nacque nel 300 circa ad Alessandria d’Egitto, città cosmopolita in gran
parte di lingua e cultura greca della
Provincia Romana dell’Egitto, da una benestante famiglia ellenista di
religione cristiana. Ancora ragazzo, fu testimone del martirio di tanti
correligionari perseguitati per la fede, ammirandone il coraggio e
imparando da essi a essere forte nelle tribolazioni. In seguito, entrò
in contatto col fervoroso mondo del monachesimo orientale, grazie alla
conoscenza dei monaci eremiti carismatici Pacomio (292-348 circa) e
Antonio (251-356), che sarebbero entrambi divenuti santi, con i quali
stabilì una profonda amicizia spirituale che accese in lui la vocazione
religiosa. Così, nel 319, non ancora ventenne, fu consacrato diacono dal
vescovo Alessandro detto “di Alessandria” (250-328), settimo patriarca
della Chiesa copta (massima carica del patriarcato di Alessandria
d'Egitto), il quale si accorse subito del suo valore, nominandolo
proprio segretario in un momento molto difficile per la locale comunità
dei credenti, a causa di una dilagante eresia. In città, infatti, si
trovava in quel periodo un presbitero e teologo berbero di nome Ario
(256-336), colto, brillante e con una vasta cultura greca di tipo
accademico, fondatore di una dottrina eretica cha da lui prese il nome
di “Arianesimo”. Le sue asserzioni pseudo teologiche causarono aspre
lotte e divisioni nella Chiesa locale e universale, profonde lacerazioni
e accese contrapposizioni che si trascinarono per tutto il IV secolo e
di cui tanti, compreso Atanasio, fecero le spese. Ario sosteneva di
voler “semplificare” la dottrina cristiana della Santissima Trinità,
distruggendo, di fatto, la peculiarità di Cristo. Per lui Gesù era un
semplice uomo che Dio stesso aveva elevato alla dignità di Suo figlio,
per farlo nostro maestro e guida di vita. Cristo era per gli ariani una
persona eccezionale, straordinaria, carismatica quanto si voglia, ma
solo e semplicemente un uomo e, di conseguenza, anche il suo Spirito non
poteva essere che una creatura. Atanasio e il suo vescovo Alessandro,
come molti altri Pastori fedeli all’ortodossia, avevano intuito il
pericolo devastante e disgregante che la dottrina di Ario poteva avere
per la Chiesa, e si rivolsero direttamente all’imperatore Costantino I
(dal 306 al 337), il quale, per dirimere la questione, convocò nel 325
un concilio a Nicea, città della Provincia Romana di Bitinia, nella
Penisola Anatolica (odierna Turchia asiatica). Atanasio vi partecipò
unitamente al proprio vescovo, giocandovi un ruolo forte e deciso nella
condanna delle teorie ariane. La sua disapprovazione dell’eresia, fu
talmente condivisa dai partecipanti, che, con chiarezza, fu ribadito che
Gesù Cristo era il Figlio di Dio, consustanziale al Padre, “Luce da
Luce”, “Generato non creato” e “Vero Dio e vero uomo”, come stabilì la
Professione di Fede coniata in quell’occasione (poi detta “Credo
Niceno-Costantinopolitano”, perché ampliata e completata in un
successivo Concilio che si sarebbe tenuto a Costantinopoli nel 381).
Tuttavia, Ario non volle sottomettersi a siffatte deliberazioni e,
proprio da ciò, cominciarono i guai e le tribolazioni per Atanasio. Nel
328, morto il vescovo Alessandro, Atanasio fu acclamato a furor di
popolo suo successore nella sede di Alessandria d’Egitto. Una delle sue
prime visite pastorali fu nella Tebaide, zona desertica dell’entroterra
della provincia, dove numerosi erano i monaci eremiti, tra cui i
discepoli di Pacomio e Antonio che egli aveva conosciuto da giovinetto.
Questi monaci avevano un grande ascendente sul popolo cristiano e
Atanasio, attraverso la loro collaborazione, voleva rinsaldare l’unità
della sua Chiesa. Purtroppo, però, mentre era ancora nel deserto, i
seguaci del filo-ariano Melezio (tra III e IV secolo circa) vescovo di
Licopoli (Egitto) lo denunciarono al regnante Costantino, sostenendo
pretestuosamente che la sua elezione episcopale non fosse valida perché
troppo giovane e, fatto ancora più grave, accusandolo falsamente di
avere tramato contro la vita dello stesso imperatore, di tenere un
comportamento dispotico e violento e perfino di avere fatto assassinare
il vescovo ariano Arsenio di Ipsele. Accuse completamente infondate, ma
più che sufficienti per fargli rischiare la pena di morte. Gli
arrivarono poi nuove grane da altri seguaci di Ario, che lui non voleva
riammettere nella Chiesa di Alessandria. Gli ariani tramarono tanto,
giungendo a convocare di loro iniziativa un sinodo, al quale fu precluso
l’accesso e la partecipazione a lui e ai vescovi pro Nicea. In
quell’occasione, Atanasio fu pubblicamente insultato, calunniato,
sbeffeggiato, minacciato e illegalmente condannato, ma, prima d’essere
catturato, riuscì a fuggire verso Costantinopoli e ad avere un’udienza
chiarificatrice con l’imperatore. La spudorata menzogna dell’uccisione
del vescovo Arsenio, grazie a Dio, si rivelò poi grottesca, perché
quest’ultimo, a un certo punto, comparve in tribunale, sanissimo. Ciò
nonostante, Costantino, che inizialmente sembrava volergli dare ragione,
cambiò idea, decretandone l’esilio di due anni nella lontanissima città
di Augusta Treverorum nella Gallia Belgica (oggi Treviri in Germania).
Atanasio, in ogni caso, non era tipo da rassegnarsi e si mise a
predicare anche nel luogo d’esilio, mettendo in guardia contro l’eresia
ariana. I cristiani di Alessandria d’Egitto, dal canto loro, gli
rimasero fedeli, non riconoscendo il vescovo ariano suo successore,
imposto senza alcuna consultazione, al quale si opposero in ogni modo.
Per essi, il proprio vescovo era e restava sempre lui, anche se in
esilio e, mentre questi predicava contro l’arianesimo nella lontana
Gallia, il monaco Antonio suo amico, dal deserto della Tebaide,
tempestava l’imperatore di lettere in suo favore. Tuttavia fu la morte
di Costantino, nel 337, a risolvere il problema. I tre successori che
gli subentrarono nello stesso anno, suddividendo l’Impero in tre zone di
competenza, Costantino II, Costanzo II e Costante, permisero il ritorno
di Atanasio alla sua diocesi. Questi fu accolto trionfalmente dal
popolo di Alessandria, ma gli ariani non si arresero e sostennero la
legittimità del loro Pastore, appellandosi al papa Giulio I (dal 337 al
352) per la convocazione di un concilio finalizzato a esaminare il caso.
Attanasio, vista la totale confusione e l’assoluta mancanza di
sicurezza, che gli impediva di governare la Chiesa locale, si rifugiò
tra i suoi amici monaci della Tebaide, nascondendosi così bene che non
si riusciva a trovarlo. Poi, su invito del Romano Pontefice, andò nella
Città Eterna per prendere parte al concilio indetto per sciogliere la
controversia. Rimase a Roma per sei anni, fino al 346, continuando la
sua crociata contro l’arianesimo. Intanto, nel 343, ci fu un altro
concilio a Sardica (l’odierna Sofia capitale della Bulgaria). Giulio I
mandò a presiederlo, in suo nome, il legato Osio detto “di Cordoba”
(257-359), futuro santo, vescovo di Cordoba (Spagna) e già consigliere
dell'imperatore Costantino I. Comunque, anche qui gli ariani giocarono
d’astuzia e, quando si profilava l’assoluzione di Atanasio e la sua
ufficiale conferma quale vescovo d’Alessandria, abbandonarono il
concilio riaffermando le loro posizioni in una lettera. Nel 346, il
nuovo imperatore Costanzo II (337-361), figlio di Costantino I, che
regnava sulla parte orientale dell’impero, a seguito delle pressioni
popolari che provenivano dall’Egitto, fu costretto a permettere il
ritorno di Atanasio nella sua diocesi, dove quest’ultimo subito si recò
accolto con tutti gli onori. La pace però non durò a lungo. Lo stesso
Costanzo, infatti, pur avendo dovuto permettere il ritorno di Atanasio,
era dichiaratamente pro-ariani e la situazione si fece molto complicata,
tanto che, per difendere Atanasio, dovette intervenire da Roma il neo
eletto papa Liberio (dal 352 al 366), futuro santo. Allora il regnante
d’oriente convocò nel 352 un nuovo concilio ad Arles nella Gallia (oggi
in Francia), dove Atanasio fu condannato di nuovo. Il pontefice
naturalmente non fu d’accordo e in seguito alla sua richiesta fu
convocato un altro concilio a Milano (Italia), ma anche qui riuscirono a
vincere gli organizzatissimi ariani con tanto di altra condanna al
confino per Atanasio. Questa volta, però, non solo fu decretato l’esilio
per lui, ma anche per altri illustri vescovi a lui fedeli, come Eusebio
di Vercelli (283-371), Dionigi di Milano (fine del 200 circa-362 circa)
e Lucifero di Cagliari (fine del 200 circa-370), tutti futuri santi. In
seguito subirono la stessa sorte il medesimo papa Liberio e il vescovo e
teologo Ilario di Poitiers (310-368), che pure sarebbe salito alla
gloria degli altari. Il partito ariano, appoggiato dall’imperatore,
sembrava stravincere. Scrisse in proposito San Girolamo (347-420),
dottore della Chiesa, che “Il mondo allora sembrava essere diventato
tutto ariano”. Ciò nonostante, quando la milizia imperiale giunse ad
Alessandria per catturare ed esiliare una volta per sempre l’ostinato
Atanasio, non riuscì a trovarlo, giacché i suoi amici monaci lo avevano
nascosto bene nel deserto. Nessuno lo tradì. Rimase per circa sei anni
tra di loro, avendo così modo di scrivere la celeberrima “Vita di
Sant’Antonio” (il suo grande amico monaco futuro santo), che ebbe un
enorme influsso nei secoli seguenti. Morto l’imperatore pro-ariani
Costanzo II, arrivò al potere suo cugino Giuliano, passato alla storia
come “l’Apostata” (dal 361 al 363), l'ultimo sovrano dichiaratamente
pagano. Questi in un primo tempo, permise a tutti i vescovi in esilio,
parecchie decine, di ritornare nelle loro sedi e così fece anche
Atanasio nel 362, dandosi subito a un’intensa opera di
riappacificazione, pur riaffermando la fede scaturita dal Concilio di
Nicea. L’Imperatore Giuliano, però, che aveva in mente di restaurare
addirittura il paganesimo politeista nell’impero, non vide di buon
occhio tutto questo lavoro e ordinò ben presto per Atanasio un nuovo
esilio fuori dall’Egitto. Così egli dovette nascondersi ancora nel
deserto, tra i suoi fidati monaci. Tuttavia, quest’ennesima “latitanza”
durò poco tempo, perché Giuliano, il sognatore del neo paganesimo, morì
presto, nel 363. Con la sua scomparsa, ecco che di nuovo Atanasio poté
tornare nella sua Alessandria tra la sua gente, tutta felice. Tuttavia,
ancora una volta non per molto, perché Valente (dal 364 al 378), nuovo
imperatore d’Oriente tramite usurpazione del titolo, era anche lui
sostenitore del partito ariano. Di conseguenza Atanasio fu costretto a
nascondersi per l’ennesima volta, mentre scoppiavano tumulti in città in
suo favore. Valente, temendo di perdere il favore del popolo, permise
al vescovo “ribelle” di ritornare tra il suo popolo di Alessandria,
ostinatamente cristiano e non ariano. L’indomito Atanasio riuscì a
vivere in pace solo gli ultimi sette anni della sua vita, fino alla
morte avvenuta il 3 maggio del 373. Era ammirato, venerato e amato dal
suo gregge, che era consapevole di tutto quello che il Pastore aveva
sofferto per la fede e per la verità di Cristo, ma anche rispettato dai
suoi nemici, che pure non mancarono mai. Atanasio scrisse moltissime
lettere ad altri vescovi, anche al papa e naturalmente ai suoi amici
monaci. Scrisse inoltre opere di carattere “omiletico” (relativo alle
omelie), “esegetico” (spiegazione della Sacra Scrittura), “apologetico”
(attinente alla difesa della fede) e pastorale. La Chiesa ne ha
riconosciuto il grande valore proclamandolo non solo santo, per la sua
vita così travagliata ma sempre coerente alla propria fede, ma anche
maestro di vita spirituale e dottore della Chiesa.
IMMAGINE: <<“Sant’Atanasio”, olio su tavola dipinto tra il 1475 ed il 1500 circa dal pittore spagnolo Sancho de Zamora, detto “Maestro di Sant’Idelfonso” (XV-XVI secolo). L’opera si trova al Museo Nacional de Escultura di Valladolid (Spagna)>>
Roberto Moggi
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IMMAGINE: <<“Sant’Atanasio”, olio su tavola dipinto tra il 1475 ed il 1500 circa dal pittore spagnolo Sancho de Zamora, detto “Maestro di Sant’Idelfonso” (XV-XVI secolo). L’opera si trova al Museo Nacional de Escultura di Valladolid (Spagna)>>
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