Oggi
- 22 maggio 2024 - mercoledì della VII settimana del tempo Ordinario,
la Chiesa celebra la memoria facoltativa di Santa Rita da Cascia (festa
per l’Ordine di Sant’Agostino, del quale è la Patrona della Provincia
Agostiniana d’Italia). Margherita, questo il suo nome di battesimo,
comunemente chiamata con il diminutivo di Rita, nacque probabilmente nel
1371 (ma alcuni ritengono
verso il 1380) a Roccaporena, frazione del libero comune di Cascia
(oggi in provincia di Perugia, regione Umbria), figlia del benestante
Antonio Lotti e Amata Ferri, entrambi funzionari pubblici. Essi
svolgevano, in un ambiente sociale difficile, caratterizzato da faide,
liti e violenze tra famiglie e fazioni, il delicato ufficio di
“Pacieri”, stabilito dagli statuti comunali. Avevano l’arduo e rischioso
incarico di pacificare i contendenti o almeno di evitare stragi cruente
tra famiglie o partiti in conflitto, ricavandone un certo prestigio
sociale ed economico. Rita fu battezzata nella parrocchia agostiniana di
San Giovanni Battista, in cima al colle su cui sorge Cascia, dove poi
ricevette l’istruzione di base e imparò i rudimenti della fede cristiana
e la devozione verso i santi, particolarmente Agostino, Giovanni il
Battista e Nicola da Tolentino, il quale ultimo ai suoi tempi era ancora
Beato. Quand’era ragazza, un giovane del luogo, Paolo di Ferdinando di
Mancino, s’innamorò di lei, ricambiato. Era un uomo d’armi, seguace
della fazione dei “Ghibellini” (che appoggiava l'Impero, in
contrapposizione a quella dei “Guelfi” che sosteneva il Papato),
piuttosto insofferente e carico di risentimento verso la controparte.
Rita, fin dal primo momento, cercò di farlo vivere in modo più
autenticamente cristiano. Sarà questo un amore incondizionato e
reciproco illuminato dalla benedizione divina, che si manifestò con la
grazia di due figli, probabilmente gemelli o venuti al mondo a breve
distanza tra loro, Giangiacomo e Paolo Maria. La nascita dei due eredi,
motivò Paolo a comportarsi più responsabilmente e in modo consono ai
valori cristiani, inducendolo, per sottrarsi alle beghe del paese, a
trasferirsi con tutta la famiglia al “Mulinaccio”, un vecchio mulino in
disuso fuori paese, di proprietà della sua famiglia, In questo modo,
lui, Rita e i due figli, ebbero una dimora più grande e la possibilità
di gestire la macinazione del grano, sufficientemente remunerativa.
Purtroppo, però, in quel periodo storico e nella società casciana, i
contrasti personali tra fazioni e famiglie non erano accantonati tanto
facilmente. Erano in auge un malinteso “senso dell’onore” e una triste
consuetudine alla vendetta. Pertanto, se pure si era ormai ritirato da
ogni disputa, pretesa e “gioco di potere”, intorno al 1406 Paolo di
Ferdinando di Mancino fu assassinato a fil di spada nei pressi del
“Mulinaccio”, nell’ambito di un’antica faida. Rita, che udì le grida e
il rumore della scaramuccia, accorse subito sul posto e, forse, vide e
riconobbe gli assassini, che si dileguarono velocemente a cavallo. Non
le restò che raccogliere il rantolo finale del marito morente e
affrettarsi a nasconderne la camicia insanguinata, affinché i figli,
vedendola, non finissero col darsi alla vendetta. Lei perdonò di cuore
gli autori (a lei noti o no che fossero) e, in ogni caso, mai ne rivelò
il nome, anche se questo le costò il risentimento della famiglia del
marito, desiderosa di rappresaglia. Convinta e sincera nel suo perdono,
era afflitta dal timore che i suoi ragazzi potessero diventare
protagonisti o vittime essi stessi della spirale d’odio innescata.
Cominciò allora a pregare incessantemente, affinché i figli non si
macchiassero di simili atrocità e allontanassero da loro il desiderio di
vendicare il padre. Tanto era forte in lei la voglia di preservare la
purezza dei figli, da pregare addirittura il Signore di prenderli
entrambi con sé, piuttosto che vederli macchiati di omicidio. Fatto sta
che entrambi morirono molto presto l’uno dopo l’altro, tra il 1406 e il
1407 circa, probabilmente di peste o a causa di qualche altra malattia,
senza aver dato corso alla vendetta. Rimasta sola dopo l’assassinio del
marito e la tragica morte dei figli, Rita si avvicinò sempre più a Gesù
sofferente e si rifugiò nella preghiera. Secondo la tradizione, fu in
questo periodo che maturò con forza il desiderio di elevare il suo amore
a un ben più alto livello e sposo, Cristo stesso. Per stare in più
intima unione con Lui, quasi ogni giorno s’inerpicava su un alto sperone
di roccia di Roccaporena, detto lo “Scoglio”, sulla cui cima
s’intratteneva lungamente in meditazione e orazione. Infine, maturata la
propria vocazione, all’età di circa trentasei anni bussò alla porta del
monastero agostiniano femminile di Santa Maria Maddalena (oggi
intitolato proprio a Santa Rita), nella parte alta di Cascia. Superate
mille difficoltà, con l’intercessione di Sant’Agostino, San Giovanni
Battista e l’allora ancora Beato San Nicola da Tolentino, che aveva
eletto suoi protettori, finalmente riuscì a coronare il suo desiderio.
Così, nel 1407 circa, iniziò la sua nuova vita nel predetto monastero,
dove ricevette l’abito religioso e visse per ben quarant’anni, fino alla
sua morte. Ascesi, contemplazione, preghiera, penitenza, ma anche
azione, sono state sicuramente le coordinate dei tanti anni di sua vita
claustrale. Si racconta che durante il noviziato, per provarne l’umiltà,
la madre badessa le abbia comandato di piantare e innaffiare un
tronchetto di legno secco. Rita obbedì senza indugi e il Signore premiò
la sua serva facendo fiorire dal tronco rinsecchito una vite rigogliosa.
Oggi, a testimonianza di quel prodigio dal forte valore simbolico, si
trova, nello stesso punto del chiostro, quella che per tutti i fedeli è
la “vite di Santa Rita”, anche se quella che si vede attualmente non è
la stessa della tradizione, ma un’altra che risale a poco più di
duecento anni fa. Sull'esempio dei suoi genitori, Rita si adoperò anche
come paciera. Nel 1426, si accese a Cascia una diatriba a causa della
cosiddetta “Tabulella Bernardiniana” (tavoletta di San Bernardino), con
sopra disegnato o inciso il “trigramma” inventato da San Barnardino da
Siena (1380-1444), in altre parole l’iscrizione “YHS” (“Jesus Hominum
Salvator”) circondata da raggi a guisa di sole, sempre mostrata ai
fedeli nel corso delle predicazioni tenute dal santo. La contesa era tra
i sostenitori della stessa e, dall’altra parte, i frati Domenicani e
Agostiniani, uniti insieme, con a capo il frate teologo Andrea, che la
avversavano. L'Ordine Agostiniano completò l’iscrizione Bernardiana con
il trigramma “XPS” (“Cristo”), sostenendo che, così facendo, sarebbero
state mostrate bene le due nature inscindibili del Salvatore, quella
umana e quella divina. La tensione, purtroppo, degenerò in una serie di
delitti e contrapposizioni frontali, in cui Rita si prodigò per
riportare la pace. Non a caso, nel suo sarcofago - oggi conservato nella
sua cella - è riportata tanto la formula Bernardiniana “YHS”, quanto
quella introdotta dagli agostiniani “XPS”. Nel 1432, Rita chiese e
ottenne dal Signore, come pegno d’amore, di diventare ancora più
partecipe alla Sua sofferenza. Così un giorno, mentre era assorta in
preghiera presso la chiesa casciana di Santa Maria, meditando sulla
predica concernente la passione di Cristo ascoltata, il precedente anno
1425, dalla bocca del futuro santo Giacomo della Marca (1393-1476),
successe qualcosa di sopranaturale. Non sappiamo cosa sia precisamente
accaduto in quel momento, ma, in una luce o un lampo, una spina
staccatasi dal Crocefisso del convento, che stava contemplando, le si
conficcò nella fronte e al tempo stesso nell’anima. Durante questo
periodo, Rita fece l’unico viaggio della sua vita fuori Cascia, andando
in pellegrinaggio penitenziale a piedi fino a Roma. La tradizione
collega il viaggio alla canonizzazione del Beato Nicola da Tolentino,
avvenuta nel 1446. Per l'occasione, la piaga sulla fronte di Rita si
rimarginò prima della partenza e si riaprì poi al suo ritorno a casa.
Ancora oggi, chi visita il monastero può vedere quello che secondo la
tradizione è il Cristo del prodigio. Non è certo se il miracolo sia
avvenuto o no in tale luogo, ma la sostanza del fatto, storicamente
provato, resta indiscutibilmente la stessa. Sicuramente Rita visse
questo dono con molta umiltà, senza farne mai vanto, parlando poco della
sua ferita e presentandola come una semplice piaga, che la accompagnò
fino alla dipartita terrena, come conferma l’epitaffio apposto sulla sua
cassa funebre: “XV anni la spina patisti”. Subito dopo la sua morte,
Rita fu venerata come protettrice dalla peste, probabilmente perché in
vita si era dedicata alla cura degli appestati, senza mai contrarne la
malattia. Da qui le deriverebbe l’attribuzione del titolo di “Santa dei
casi impossibili”, col quale è universalmente venerata. Nell’inverno
precedente la sua scomparsa terrena, ormai gravemente ammalata, Rita
trascorse lunghi periodi nella sua cella. Probabilmente la nostalgia per
la sua Roccaporena, il marito Paolo e i figli, si fece sentire viva.
Forse Rita, che pregò sempre per le loro anime, sentendo avvicinarsi la
fine, avvertì una pena in cuore. Avrebbe desiderato sapere se il Signore
avesse accolto le sue sofferenze e preghiere in espiazione dei peccati
dei suoi cari, pertanto chiese un segno di risposta all’Amore. A tale
scopo, chiese a una sua parente, che era venuta a trovarla, di passare
nel suo orto di Roccaporena e cogliere una rosa e due fichi. Era un
gennaio nevoso e freddissimo, impossibile, dunque, trovare quanto
chiesto. Ciononostante la parente si recò ugualmente nell’orto, trovando
miracolosamente la rosa e i due fichi, freschissimi e profumati, che
colse e portò a Rita. Ecco la risposta tanto sospirata. Le sue preghiere
erano state esaudite: il marito, morto ammazzato e i due figli, morti
uno dopo l’altro, erano stati accolti da Dio in Paradiso. Con il fisico
ormai provato dalle tante sofferenze, Rita giunse all’alba dell’incontro
celeste la notte tra il 21 e il 22 maggio 1447 (ma secondo altri 1457).
In quel preciso momento, la tradizione vuole che le campane del
monastero, mosse da mani invisibili, si siano messe a suonare,
richiamando la cittadinanza che, come per ispirazione divina, si recò al
monastero per ossequiare Rita, la suora già da tutti considerata santa.
Nel 1457, per iniziativa delle autorità comunali, i tanti prodigi
compiuti per intercessione di Rita cominciarono a essere annotati nel
“Codex Miraculorum” (“Codice dei miracoli”). Il corpo di Rita non venne
mai sepolto, proprio per il forte culto nato immediatamente dopo la sua
morte. Da subito, infatti, cominciarono ad arrivare gli ex voto portati
dai devoti. Vedendo tanta devozione, le monache decisero di riporre il
corpo in una cassa, che tale Mastro Cecco Barbari, artigiano del luogo
gravemente malato, s’incaricò di costruire. Questa è la sua prima bara,
detta “cassa umile”. Lo stesso Mastro Cecco, al solo vedere il corpo di
Rita, immediatamente guarì. Questa testimonianza ha un grande rilievo
storico perché ci fa capire con chiarezza che Rita, appena morta, fu
portata in chiesa senza cassa, sicuramente avvolta in un lenzuolo, per
essere poi sepolta nel loculo delle monache. Tuttavia la gente accorreva
continuamente per venerarla, dal paese e dai dintorni, impedendo così
che le sue consorelle potessero procedere al rito dell’inumazione. Il
corpo, quindi, restò così per qualche tempo. Mentre si diffondeva
ovunque la voce che Rita compisse un fiume di miracoli. Sempre nel 1457,
a causa di un incendio divampato nell’oratorio, la cassa e il corpo,
rimasti prodigiosamente intatti, furono messi nel sarcofago, conosciuto
come “cassa solenne”. Probabilmente, anche questo “sarcofago” fu fatto
costruire dallo stesso Cecco Barbari come ex voto, oppure su commissione
della sua famiglia, devotissima a Rita. Il corpo di Santa Rita fu poi
spostato ulteriormente, fino a giungere all’odierna basilica a lei
intitolata a Cascia, dove dal 18 maggio 1947 riposa dentro l’urna
d’argento e cristallo realizzata per lei nel 1930. Indagini mediche
sulle sue reliquie hanno accertato la presenza di una piaga ossea
(osteomielite) sulla fronte, a riprova dell’esistenza della stigmata. Il
viso, le mani e i piedi sono mummificati, mentre sotto l’abito di suora
agostiniana c’è l’intero scheletro (così ridottosi dalla prima metà del
1700). Il piede destro ha segni di una malattia sofferta negli ultimi
anni, forse una sciatalgia. Dopo un lungo percorso burocratico, il 24
maggio 1900, papa Leone XIII la proclamò Santa.
IMMAGINE: << La più antica effige conosciuta di Santa Rita da Cascia, particolare a tempera su legno, realizzata da ignoto autore di scuola umbra nel 1457 circa, sulla cosiddetta “cassa solenne”, la cassa lignea (bara) che contenne il suo corpo. L’opera si trova nel Santuario agostiniano a lei dedicato, a Cascia (provincia di Perugia, regione Umbria)>>
Roberto Moggi
Home page ARGOMENTI
IMMAGINE: << La più antica effige conosciuta di Santa Rita da Cascia, particolare a tempera su legno, realizzata da ignoto autore di scuola umbra nel 1457 circa, sulla cosiddetta “cassa solenne”, la cassa lignea (bara) che contenne il suo corpo. L’opera si trova nel Santuario agostiniano a lei dedicato, a Cascia (provincia di Perugia, regione Umbria)>>
Roberto Moggi
Home page ARGOMENTI
Commenti
Posta un commento
Non inserire link cliccabili altrimenti il commento verrà eliminato. Metti la spunta a Inviami notifiche per essere avvertito via email di nuovi commenti al post.