Il 19 maggio, la Chiesa
ricorda, tra i vari santi e beati, San Teofilo da Corte, religioso e
sacerdote. Biagio, questo il suo nome di battesimo, figlio unico di
Giovanni Antonio della nobile casata De Signori e di Maddalena Arrighi,
nacque a Corte (Corsica) il 30 ottobre 1676. Fin dall’infanzia manifestò
il desiderio di consacrarsi a Dio nella vita religiosa, ricevendo
inizialmente il netto rifiuto dei genitori, di alto
lignaggio, poiché era l’unico loro erede. Tuttavia, nel 1693, a
diciassette anni, riuscì a entrare nel convento dei frati francescani
Cappuccini allora esistente a Corte, salvo uscirne dopo un breve
periodo, per passare fra i frati Minori Osservanti (della stessa
famiglia francescana) del vicino convento cittadino di San Francesco.
Qui, il 21 settembre 1693, vestì il saio assumendo il nome religioso di
Teofilo [derivante dal greco antico “Theophilos”, composto da “Theos”
(“Dio”) e “philos” (“amico”, “amato”, “caro”), che può quindi essere
interpretato come “Amico di Dio”, “Amante di Dio”, “Caro a Dio” o “Amato
da Dio”]. Qui compì l’anno di noviziato, facendosi apprezzare per il
suo spirito di ubbidienza e di penitenza, nonostante la gracilità della
sua costituzione fisica, fino all’emissione della professione religiosa,
il successivo 1694. Due anni dopo, nel 1696, fu inviato a Roma per
completare gli studi filosofici, nel centralissimo convento di Santa
Maria d’Ara Coeli e in seguito a Napoli, capitale dell’omonimo regno,
per studiare teologia nel convento di Santa Maria la Nova, dove
pronunciò i voti e fu ordinato sacerdote il 30 novembre 1700. Avendo
conseguito ottimi risultati, grazie anche alla prodigiosa memoria di cui
era dotato, gli fu concessa la patente di Lettore, che permetteva di
proclamare la parola di Dio, con l’obbligo di preventivo concorso. Fu
quindi destinato all’insegnamento, ma nella prima metà del 1702, per
potersi adeguatamente preparare al predetto esame, ottenne di ritirarsi
provvisoriamente nel solitario convento intitolato a San Francesco, sito
nelle vicinanze di Civitella San Sisto (oggi Bellegra, in provincia di
Roma), in mezzo ai boschi dei Monti Prenestini a sud-est dell’Urbe.
Convento che, secoli prima, San Francesco d’Assisi aveva personalmente
avuto in dono dai monaci Benedettini della non lontana abbazia di
Subiaco. Priore del cenobio era allora fra Tommaso da Cori (1655-1729),
che pure sarebbe diventato santo. Questi capì immediatamente il valore
spirituale del nuovo arrivato e lo volle vicino a sé come suo
assistente, colpito da quanto il frate corso si mostrasse distaccato
dalle cose di questo mondo, amante della solitudine, esatto
nell’osservanza della regola, severo nel mortificare il proprio corpo
con cilici, cinture di ferro e flagelli, e dal fatto che si nutrisse con
cibi resi insipidi o amari con l’assenzio e altre erbe non gradite al
palato. L’incontro con Tommaso da Cori, dal quale fu molto positivamente
influenzato, cambiò la vita di Teofilo. Egli, infatti, rinunciò
all’insegnamento e, con il permesso dei superiori, rimase con lui nel
convento di Civitella San Sisto. Tuttavia, nel 1703, Teofilo, sentendosi
chiamato da Dio a erudirsi nelle scienze sacre, volle recarsi a Roma,
per partecipare al concorso per il “lettorato”. S’incamminò a piedi ma,
giunto a Tivoli, cittadina allora a metà strada circa da Roma, cadde
malamente e si ruppe una gamba, dovendo essere trasportato a Roma
nell’infermeria del convento di Santa Maria d’Ara Coeli. Qui,
prontamente raggiunto da Tommaso da Cori, che lo rimproverò per aver
intrapreso da solo un viaggio tanto pericoloso, capì che era volontà di
Dio che rinunciasse al magistero per darsi alla propagazione della
cosiddetta “Opera dei Ritiri”, che in quel periodo era molto conosciuta.
Si trattava di un’iniziativa intrapresa dal confratello laico catalano
Bonaventura da Barcellona (1620-1684), futuro beato, nel convento di
Santa Maria della Grazie a Ponticelli, paesino vicino alla città di
Rieti, nella parte orientale del Lazio. Quest’impresa, ereditata e fino
allora portata avanti dallo stesso Tommaso, consisteva nel “radunare”
frati francescani che volessero vivere in stretta comunione e povertà
all’interno di conventi già esistenti o nuovi. A tale scopo, proprio in
quel periodo, furono approvati i regolamenti che riguardavano i conventi
tenuti dai frati Minori cosiddetti “Recolletti” (nome che deriva, per
l’appunto, dall’abitudine di questi frati di “raccogliersi” in conventi
solitari). Rimessosi sufficientemente in salute, Teofilo tornò a
Civitella, dove il Padre Provinciale dell’Ordine dei frati Minori, nel
1705, gli assegnò l’ufficio di predicatore, incarico che lui utilizzò
per diffondere tra il popolo la devozione a Gesù Crocefisso, che
costituiva il principale argomento dei suoi sermoni. Rimase nel convento
di Civitella San Sisto fino al 1709, quando fu trasferito per sei anni
al convento di Palombara Sabina, a nord-est di Roma, dove, dal 1713 al
1715, fu anche padre guardiano. Infine, nel 1715 tornò nuovamente a
Civitella, ove rimase ben dodici anni, ricoprendo anche qui la carica di
guardiano. La sua umiltà era tanto grande che un giorno, compiuto il
previsto triennio di “guardianato”, si mise in mezzo al refettorio
durante il pranzo e, tenendo appeso al collo un pezzo di legno, chiese
umilmente perdono a tutti i confratelli dei dispiaceri e delle molestie
che, nella sua grande modestia, riteneva avere potuto dare loro. Per
affinarlo di più nella virtù della pazienza, il buon Dio permise che il
suo successore nell’incarico, fra Benedetto da Cerchiara, lo prendesse
in antipatia e non lasciasse passare nessuna occasione per umiliarlo. Le
persecuzioni durarono due anni e giunsero a tal misura che lo stesso
Tommaso da Cori ritenne necessario recarsi a Roma per fare rimuovere fra
Benedetto dall’incarico. Teofilo era sempre più incamminato sulla via
della santità e cresceva nella stima dei suoi superiori per la sua
pacatezza, gentilezza, umiltà e per l’equilibrio che dimostrava di
possedere in mezzo alle difficoltà che la vita religiosa presentava. Per
esempio, nel convento di Civitella c’era l’uso molto duro, fin dalla
sua fondazione, che i frati mangiassero per terra tutti i venerdì
dell’anno ed egli, nonostante le personali penitenze alle quali si
abbandonava volentieri, pregò il padre provinciale in visita al cenobio,
per la buona pace di tutti, che quell’uso sicuramente pesante fosse
riservato ai soli venerdì del mese di marzo, oltre che alle vigilie
delle feste della Madonna e di San Francesco. Nel 1724, contro la sua
volontà, dovette accettare ancora una volta l’incarico di guardiano del
convento, compito durante il quale l’ormai anziano Tommaso da Cori fu il
suo sottoposto più ubbidiente e il più diligente osservante
dell’evangelica povertà che Teofilo esigeva. Nel 1727, fu inviato a
ravvivare la fiamma della fede e dell’obbedienza nel monastero di
Palombara Sabina (presso Rieti), poiché la disciplina che vi aveva
introdotto Tommaso da Cori si stava spegnendo. Di quanta fermezza e
dolcezza egli seppe fare uso, allo stesso tempo, nell’esercizio della
sua autorità, abbiamo notizia attraverso gli “avvisi” che più tardi
scrisse per il suo successore. Nel 1729 era ancora di ritorno a
Civitella. Predicatore eccellente, molto ascoltato e persuasivo nel suo
dire, Teofilo percorse senza sosta quasi tutti i paesi della Sabina
(così è chiamata la zona del Lazio a est di Roma) e dell’area di
Subiaco, per portare la parola di Dio. Nei conventi invece portò sempre
il suo elevato spirito serafico, un fervido zelo apostolico ed efficaci
virtù di governo. Intanto l’Ordine Francescano, nel 1730, decise di
aprire un nuovo convento in Corsica, a Zuani, a nord est di Aleria,
nella “Banda di dentro”, la parte orientale, per rinforzarvi la propria
presenza andata decrescendo. Per questo delicatissimo compito, che
comprendeva anche la funzione di controllo degli altri conventi
francescani già esistenti sull’isola, l’Ordine pensò a lui, poiché,
oltre ad essere corso, era efficiente, colto ed erede della spiritualità
di Tommaso da Cori, morto l’anno precedente in odore di santità.
Teofilo fu ufficialmente incaricato dell’impresa e fu così che, dopo ben
trentaquattro anni di assenza, rientrò nella sua bella isola, divenendo
il padre guardiano del nuovo convento istituito in territorio di Zuani
(a nord est di Aleria) il 20 dicembre 1732. La felicità che provò nel
rimettere piede nella terra natale, dopo tanti anni d’assenza, fu presto
offuscata dalle difficoltà d’ogni sorta che ovunque dovette affrontare.
Il monastero di Campoloro, nell’omonima valle sulla costa orientale
dell’isola, non si prestava alla disciplina perché alcuni frati, amanti
del quieto vivere, minacciarono di sollevargli contro il popolo qualora
avesse voluto introdurre tra loro le austerità previste per i “Ritiri”.
Anche nel convento di Nonza, nei pressi della costa del Golfo di San
Fiorenzo, alla base della parte occidentale del Capo Corso, alcuni frati
incitarono il popolo a opporsi con tumulti all’introduzione nel loro
convento di una vita più austera. Il santo, senza scomporsi, per fare
penetrare nei cuori l’idea dei “Ritiri”, andò a predicare la Quaresima a
Corte, sua città natale, dove visse di elemosine nonostante i frequenti
inviti a pranzo da parte dei suoi ricchi parenti. Dopo tante fatiche e
contraddizioni, Teofilo riuscì finalmente a instaurare un ritiro nel
nuovo convento di Zuani, benché i frati, come il solito, cercassero di
sollevargli contro il popolo. Dalle celle dei religiosi egli fece
togliere tutti gli oggetti superflui; abolì le questue; fece allontanare
dal convento ventiquattro alveari di api; dispose che tutte le messe
fossero celebrate gratuitamente per i benefattori e, per la
sopravvivenza dei frati e del convento, si affidava solamente alla
Divina Provvidenza. Difatti le elemosine crebbero in tale quantità che
Teofilo dovette pregare i benefattori di essere meno generosi e, mentre
prima sei religiosi stentavano a vivere, come nuovo guardiano fu
costretto ad ampliare il convento per riceverne diciotto. Zuani,
comunque, non fu il suo punto d’arrivo e la sua attività itinerante non
era ancora conclusa. Infatti, portata a termine con successo la missione
nella sua Corsica, fu richiamato a Roma nel 1734 e, l’anno successivo,
rimandato a fare il guardiano a Civitella. Poi, quando a Palombara
Sabina fu aperto il processo canonico per la canonizzazione di Tommaso
da Cori, andò a farvi la sua deposizione ampia e solenne. In quel tempo,
ottenne da papa Clemente XII il favore di guadagnare, con il crocefisso
che portava sempre con sé, le indulgenze annesse alla pia pratica della
“Via Crucis”. Ciò nonostante, Teofilo non si fermava ancora. Dopo un
poco riprese il cammino per andare a fondare una nuova casa francescana
nel Granducato di Toscana. Infatti, quando i Francescani della Toscana
manifestarono il desiderio di trasformare un loro convento in ritiro, fu
scelto il cenobio della Vergine di Fucecchio, vicino a Firenze, sulla
riva del fiume Arno. Teofilo fu inviato a Fucecchio nel 1736, col titolo
di “presidente”, perché v’introducesse la riforma ideata. Sul posto,
trovò gli abitanti, sobillati dai soliti frati rilassati, vivamente
ostili, tanto da insultarlo e accusarlo d’ipocrisia e ignoranza, ma egli
con la pazienza e l’esortazione addolcì il cuore degli oppositori e si
guadagnò il favore del vescovo del posto e del sovrano di Toscana, il
granduca Giovanni Gastone de’ Medici. Teofilo nutriva, come già visto,
una sconfinata fiducia nella Provvidenza e per questo era un acerrimo
nemico del denaro. Il giorno di Pasqua dello stesso anno, le varie
confraternite e associazioni del paese, com’erano solite fare, entrarono
nella chiesa dei frati e deposero il denaro delle loro elemosine
sull’altare maggiore. Teofilo entrò anch’egli nel presbiterio per
cantare la messa e le vide: se ne indignò a tal punto che, con un colpo
di mano, le gettò in terra gridando e chiedendo cosa mai fosse “quella
porcheria”. Di tanto distacco dalle ricchezze, Dio lo ricompensò con il
dono supremo dei miracoli. Dopo una sua preghiera o una sua benedizione
tanti malati recuperarono la salute e tante partorienti, in pericolo di
vita, diedero felicemente alla luce i loro figli. Ovunque era conosciuta
la sua fama. I familiari dei malati sapevano per esperienza che, quando
il santo li invitava ad aver fede l’infermo guariva; quando invece li
invitava a rassegnarsi alla volontà del Padre Celeste, il malato era
destinato alla morte. Niente lo arrestava dal recarsi al capezzale dei
morenti: non il cattivo tempo o l’impraticabilità delle strade; non
l’asma o l’ernia che da qualche tempo lo tormentavano. Infine, superate
tutte le difficoltà, sotto la sua esperta guida, il convento di
Fucecchio, ora “ritiro”, si affermò diventando un centro di vera
attrazione spirituale per tutti. Qui trascorse gli ultimi anni della sua
intensa e laboriosa vita, dedito particolarmente agli ammalati, ai
poveri e ai sofferenti. Fu appunto in seguito ad una di quelle visite di
carità che contrasse una pleurite. Al medico che lo visitò e che non
gli nascose la gravità del suo male, egli rispose con sinceri
ringraziamenti, manifestando al contempo la sua piena sottomissione al
volere di Dio. Quando si accorse che i frati volevano trasportarlo con
un calesse all’infermeria del convento di Lucca, sempre in Toscana, vi
si oppose fermamente, spiegando di essere un povero frate e non certo un
re. Chi lo assisteva su quello che sarebbe divenuto il suo letto di
morte, un giorno lo esortò a pregare affinché, se fosse stata ancora
necessaria la sua opera, potesse ottenere la guarigione, ma Teofilo,
invece, non intese farlo, chiarendo che se egli avesse creduto di essere
necessario a qualcosa, si sarebbe ritenuto dannato. Avvicinandosi la
fine terrena, dopo la raccomandazione dell’anima a Dio, ebbe un
turbamento, fissò lo sguardo in un angolo della stanza e per due ore
borbottò concitato parole incomprensibili. Il demonio gli si era forse
presentato per tentarlo, pensarono i presenti costernati, giacché lo
udirono ripetere più volte invocazioni rivolte al Dio uno e trino, e
considerazioni sull’anima e l’eternità. Poi, tornata apparentemente la
calma nel suo animo, alzò la mano destra, la lasciò cadere sul letto e,
sostenendo con la sinistra il crocefisso, spirò a Fucecchio il 19 maggio
1740, in odore di santità, mormorando di non avere di che temere. La
sua fama, i miracoli che si moltiplicarono per sua intercessione e i
numerosi pellegrinaggi di popolo alla sua tomba, spinsero le autorità
ecclesiastiche a instaurare subito e accelerare i tempi per la sua
canonizzazione, tanto che, il primo dei processi canonici per la sua
beatificazione, si ebbe già nel 1750. Di seguito fu dichiarato
venerabile da papa Benedetto XIV il 21 novembre 1755, beato da papa
Leone XIII il 19 gennaio 1896 e infine, il 29 giugno 1930, il grande
santo italiano, apostolo della sua Corsica, di Fucecchio e della diocesi
di San Miniato (Toscana), fu canonizzato da papa Pio XI. Le reliquie di
quest’umile santo che nelle proprie lettere si firmava solo: “Teofilo
da Corte, peccatore”, sono tuttora custodite e venerate a Fucecchio
(oggi in provincia di Firenze), sotto la mensa della chiesa detta “La
vergine” del convento intitolato a San Francesco. San Teofilo da Corte è
patrono di Corte e di Zuani (Corsica) e della Corsica stessa, assieme a
Santa Devota e Santa Giulia.
Roberto Moggi
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