Oggi
- 23 maggio 2024 - giovedì della VII settimana del tempo ordinario, la
Chiesa ricorda, tra i vari santi e beati, San Giovanni Battista De
Rossi, sacerdote (memoria facoltativa nella diocesi di Roma). Giovanni
Battista, chiamato semplicemente Giovanni, nacque il 22 febbraio 1698
nel villaggio montano di Voltaggio, nell’allora “Serenissima” Repubblica
di Genova (oggi in Provincia di Alessandria,
regione Piemonte), da una povera famiglia contadina. Sin dall'infanzia
si faceva notare per il suo candore, la bontà e l’angelica pietà, tanto
che, nel 1708, la nobile casata genovese Scorza, che ogni estate si
ritirava al fresco nel proprio palazzo di Voltaggio, ne rimase così
edificata che lo volle portare in città come paggio di famiglia. Nel
1711, dopo tre anni di onorato servizio, si trasferì a Roma chiamato da
uno zio paterno, padre provinciale dei frati Cappuccini e dal cugino,
canonico della basilica romana di Santa Maria in Cosmedin. Fu proprio
nella Città Eterna che si manifestarono i primi segnali dell’epilessia,
malattia invalidante che non lo abbandonò mai per tutta la vita. A Roma
prese alloggio presso detto cugino, frequentando i corsi di studio
umanistico, scientifico e teologico del prestigioso Collegio Romano.
Studiava incessantemente, con grandissimo impegno, alternando lo studio
alla preghiera e alle penitenze, sentendo viva la chiamata alla vita
sacerdotale. Si addottorò in filosofia con lode, ma andò incontro a un
forte esaurimento a causa dell’eccessivo impegno e a nuovi attacchi
d'epilessia. Fu costretto, suo malgrado, a lasciare il collegio, ma,
nonostante tutto, non interruppe gli studi, continuandoli come semplice
uditore presso i frati Domenicani di Santa Maria sopra Minerva. Lungi
dal rammaricarsi della sua infermità, Giovanni ne ringraziò Dio perché,
diceva, se avesse potuto seguire gli studi come desiderava, avrebbe
sicuramente peccato con la vanità di farli da dotto e da letterato. La
triste esperienza gli servì in seguito per raccomandare, ai giovani
specialmente, di non praticare eccessive penitenze. Nel frattempo,
Giovanni continuò a frequentare, all’interno del Collegio Romano, la
congregazione religiosa detta “della Scaletta”, in cui era entrato nel
1712 con l'ufficio di sacrestano. Sotto la direzione spirituale di un
celebre educatore Gesuita, padre Francesco Maria Galluzzi (1671-1731),
futuro Servo di Dio, maturò una grande devozione per il santo Gesuita
Luigi Gonzaga (1568-1591) e fu introdotto nel ristretto cerchio degli
studenti della Basilica dei Santi XII Apostoli, lanciato nell'apostolato
tra i suoi coetanei. Benché non fosse troppo bravo negli studi, per la
rettitudine di spirito, l'abitudine di chiedere sempre consiglio nei
dubbi e soprattutto per la luce della grazia con cui Dio si era
compiaciuto di colmarlo, fu ordinato sacerdote l'8 marzo 1721. Lo stesso
giorno egli fece voto di non chiedere mai alcun beneficio ecclesiastico
e di non accettarlo salvo che non vi fosse stato costretto
dell'ubbidienza. Risoluto a modellare la sua vita sui decreti del
Concilio di Trento (1545-1563), s'iscrisse all'associazione di sacerdoti
che era sorta nell'Oratorio del Caravita (la chiesa di San Francesco
Saverio nel rione Pigna) e cominciò un'esistenza tutta dedita al
ministero sacerdotale, all'educazione e al sollievo materiale e
spirituale dei poveri. Finché le forze glielo permisero, recitò sempre
l'ufficio divino genuflesso, ora con lacrime, ora con affettuosi
sospiri. Non celebrò mai la Messa prima di aver avere pregato Mattutino e
Lodi e fatto un'ora di meditazione pure in ginocchio. Durante il Santo
Sacrificio il volto gli si accendeva, e dalla consacrazione fino alla
comunione, era sempre assalito da un insolito tremore in tutte le
membra. Lo straordinario fenomeno era effetto di quella soave dolcezza
con cui il Signore gli inondava l'anima. Benché non fosse stato ancora
autorizzato a confessare, due volte la settimana Giovanni si recava a
quello che allora era chiamato Campo Vaccino (Foro Romano) per preparare
ai sacramenti i butteri e i pastori che conducevano il bestiame al
mercato. Ben presto s'iscrisse pure alla Pia Unione di Santa Galla che
aveva cura dell'omonimo Ospizio, ove trovavano ricovero i senza tetto e
per oltre quarant'anni egli ne frequentò sempre tutti gli esercizi
spirituali. Nello stesso Ospizio, non si accontentò di radunare i poveri
nei giorni stabiliti, per l'insegnamento della dottrina cristiana, ma
introdusse la comunione generale una volta il mese e le missioni una
volta l’anno. La grande pazienza, la generosità e la bontà con cui
Giovanni trattava “gli ultimi”, gli procurarono subito la loro
venerazione, tanto che lo chiamavano con molto rispetto “Signor
Maestro”. Egli non tollerava che a essi fossero fatte ingiustizie o che
fossero offesi, provando dispiacere quando sentiva qualcuno chiamarli
“Birbe di Santa Galla”. Avrebbe stabilito volentieri il suo domicilio
tra loro, ma non gli fu concesso. Presso la chiesa sorgeva il ricovero
per gli uomini, ma non esisteva quello per le donne. Giovanni allora vi
provvide nel 1731, tramite le offerte di benefattori e l'aiuto di papa
Clemente XII (dal 1730 al 1740), giacché lui non aveva introiti
economici ed era mantenuto dal cugino canonico. Per assicurargli un
onesto sostentamento, quest’ultimo lo supplicò un giorno di accettare la
coadiutoria al suo canonicato, ma egli, fedele al voto fatto di non
accettare benefici economici, accolse soltanto il 5 febbraio 1735,
quando il suo nuovo confessore lo obbligò ad acconsentire. Nel 1737,
quando suo cugino morì, Giovanni si trasferì in un granaio contiguo alla
chiesa di Santa Maria in Cosmedin, che trasformò in abitazione, per
essere più pronto al servizio alla basilica e al coro. A causa delle sue
ormai gravi infermità, dopo nove anni fu esortato a trasferirsi nel
convitto dei sacerdoti della Santissima Trinità dei Pellegrini. Per
accrescere il decoro della basilica egli offrì somme di denaro e per
provvedere al sostentamento dell'organista donò una casa che aveva
ereditato dal cugino. Nella basilica minore di Santa Maria in Cosmedin
nel Rione ripa, era venerata un'antica immagine della Santa Vergine.
Giovanni ottenne dai colleghi di terminare il divino ufficio con il
canto delle Litanie Lauretane, prostrati dinanzi ad essa, e di preparare
il popolo alla festa della natività di Maria, titolare della basilica,
con una solenne novena predicata. A causa delle sue tante sofferenze
fisiche, Giovanni non aveva mai esercitato il ministero della
confessione, per il quale non era neanche abilitato. Tuttavia il
Signore, che voleva da lui la santificazione proprio attraverso il
sacramento della penitenza, ispirò a Monsignor Giovanni Tenderlini,
vescovo di Civita Castellana (Viterbo), presso il quale Giovanni si era
ritirato dopo un’altra grave malattia, di adibirlo ugualmente a
confessare nella sua diocesi durante la convalescenza. Il santo ubbidì e
con meraviglia costatò che, senza il più lieve incomodo, poteva
attendere anche a quel ministero. Tornato a Roma, approfondì per qualche
anno lo studio della morale e poi, nel 1739, chiese d’essere ammesso
all'esame per l’abilitazione formale alla confessione. In breve tempo
Santa Maria in Cosmedin divenne il “Rifugio dei peccatori”, tanto era
grande l'attrattiva che Giovanni esercitava su di loro, con la sua bontà
e il dono di leggere nelle coscienze. Comunque, essendo obbligato al
Coro, non sempre gli era possibile accontentare tutti e, pertanto,
chiese l'esenzione dal Coro a papa Clemente XII per i giorni di maggior
diverso impegno. Ciò nonostante, più volte fu costretto a ritardare la
celebrazione della Messa fin verso mezzogiorno tant'era grande la ressa
di popolo accorso da ogni parte attorno al suo confessionale, ma non
accondiscese mai a diventare confessore ordinario di nobili e ricchi. La
carità di Giovanni si rivolgeva naturalmente anche ai malati e amava
riservare tutto il tempo che poteva per gli infermi e i poveri. Anzi, a
imitazione di San Filippo Neri, confessò i suoi figli spirituali anche
quando giaceva a letto malato, giacché era convinto che la strada più
breve e sicura per andare in Paradiso fosse quella dell'assiduità al
sacramento della penitenza. Appena veniva a sapere che un malato
desiderava la confessione e la comunione, smetteva anche di pranzare o
di dormire per andarlo subito a confessare, consolare e a portargli
denaro, cibi e vesti. Sapeva commuovere anche i cuori più induriti
ricordando a tutti che la miseria umana costituisce il trono
dell'infinita misericordia di Dio. Sovente gli capitava di passare
attraverso il “Ghetto”, il quartiere ebraico dell’Urbe. Prima di
entrarvi recitava il Credo e poi sospirava, considerando con compassione
la “cecità” degli ebrei. Altrettanta carità mostrò verso i carcerati,
che divennero anch’essi suoi amici e penitenti. Il nuovo pontefice
Benedetto XIV (dal 1740 al 1758), volle che una volta la settimana
Giovanni istruisse pure le guardie, prima nell'oratorio della
Congregazione delle Cinque Piaghe di nostro Signore, e poi nell'oratorio
di Santa Maria del Pianto. Il santo accettò di diventare il loro
Predicatore a condizione che non gli fosse assegnato compenso alcuno,
volendo sovra spendersi soltanto per la maggior gloria di Dio e il bene
delle anime. I superiori apprezzarono il suo zelo indefesso e più volte
lo incaricarono di dettare gli esercizi spirituali nei monasteri e nelle
case religiose, di dispensare la parola di Dio dai pulpiti delle chiese
di Roma o di tenervi catechismi in preparazione al precetto pasquale.
Benché godesse poca salute e, abitualmente fosse sofferente di tremendi
dolori alla testa, legati all’epilessia, egli giunse a tenere anche
cinque o sei diversi sermoni in un giorno solo, su differenti argomenti e
con chiarezza estrema. Per molti anni si recò pure a predicare le
missioni nei feudi più abbandonati della campagna romana, come pure nel
resto del Lazio, nell'Umbria e nell'Abruzzo. Ebbe modo di convertire
innumerevoli peccatori e, costatando spesso i tristi effetti che
producevano nei fedeli la mancanza di zelo dei Pastori, cercò di
promuovere nel clero secolare lo spirito della loro vocazione, con la
preghiera, l'esempio, le private esortazioni, i ritiri e le conferenze
spirituali. Quantunque egli si affaticasse tanto a vantaggio spirituale e
materiale del prossimo, si riteneva un servo inutile. Nel 1763,
l’estrema debolezza nelle gambe e il totale sfinimento ne fecero
prevedere l’imminente fine. I suoi amici lo condussero a respirare aria
più salubre ad Ariccia (Roma), sui colli dei Castelli Romani, ma egli
preferì tornare al convitto della Santissima Trinità dei Pellegrini.
Qui, dopo l'aggravamento dell'epilessia negli ultimi mesi di vita, che
lo costrinse a un vero e proprio calvario, morì dopo parecchi attacchi
di cuore il 23 maggio 1764. I funerali furono fatti a spese dei
convittori, perché il defunto aveva distribuito tutti i suoi averi ai
poveri. Dal cugino canonico aveva ereditato un discreto patrimonio, ma
egli se n'era servito per comprare agli indigenti letti e coperte, oltre
che cibo e vestiti. Sovente si era ridotto a vivere con l'aiuto dei
benefattori, perché nel fare elemosina non conobbe limiti. Gli capitò di
non potere avere denaro e, allora, giunse a donare ai poveri il proprio
letto, le scarpe e persino i calzoni. Papa Pio IX lo beatificò il 2
agosto 1859 e il pontefice Leone XIII lo canonizzò l'8 dicembre 1881. Le
sue reliquie sono venerate nella chiesa della Santissima Trinità dei
Pellegrini a Roma.
IMMAGINE: << “San Giovanni Battista de Rossi”, olio su tela ovale dipinto nel 1882 dal pittore romano Antonio Bianchini (1803-1884). L’opera si trova nella terza cappella lato destro della chiesa intitolata alla Santissima Trinità dei Pellegrini, in pieno centro storico di Roma>>
Roberto Moggi
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IMMAGINE: << “San Giovanni Battista de Rossi”, olio su tela ovale dipinto nel 1882 dal pittore romano Antonio Bianchini (1803-1884). L’opera si trova nella terza cappella lato destro della chiesa intitolata alla Santissima Trinità dei Pellegrini, in pieno centro storico di Roma>>
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