Oggi
- 9 marzo 2024 - venerdì della III settimana del tempo di Quaresima, la
Chiesa consente la commemorazione di Santa Francesca Romana, religiosa.
Di Francesca - questo il suo unico nome di battesimo (l’appellativo
“Romana” lo aggiunse solo negli ultimi anni di vita) - abbiamo una ricca
agiografia, che comprende gli atti dei processi di canonizzazione; la
vita scritta dal sacerdote benedettino-olivetano Ippolito e,
soprattutto, i “Tractati” (Trattati),
scritti in volgare e latino tra il 1440 e il 1447, dal sacerdote
Giovanni Mattiotti, rettore della Cappella dell’Angelo presso la
Basilica Santa Maria in Trastevere a Roma, che ne fu il confessore negli
ultimi undici anni di vita. Francesca nacque nel 1384, nel centrale
rione Parione di Roma, allora capitale dello Stato della Chiesa, dalla
nobile famiglia Bussa de’ Buxis de' Leoni. Bambina saggia e più matura
della media, diede presto segni di forte spiritualità, mostrando il
desiderio di consacrarsi a Dio e fantasticando grandi battaglie contro i
diavoli, tanto da costruirsi nel giardino di casa una sorta di piccolo
eremo, un luogo appartato dove si ritirava a pregare in solitudine.
Tuttavia, ben diversi erano i piani dei genitori e, nel 1396, a soli
dodici anni, secondo gli usi del tempo, fu data in sposa contro la sua
volontà a Lorenzo de’ Ponziani, ricco commerciante in bestiame e
granaglie, oltre che possidente terriero, abitante nel quartiere romano
di Trastevere, di nobile famiglia forse imparentata con l’allora
regnante papa Bonifacio IX (dal 1389 al 1404). Il sofferto matrimonio,
la sua giovanissima età e la forzata rinuncia all’agognata vita
religiosa, però, scatenarono in lei una violenta reazione nervosa, che
la famiglia fronteggiò con il ricorso alle “cure” di una sorta di
“fattucchiera”. La povera Francesca, che vi si oppose strenuamente e non
ne ricavò naturalmente alcun beneficio, ebbe invece la cura giusta
attraverso una visione celeste che la tranquillizzò, restituendole pace
interiore e forza fisica. Nella nuova casa coniugale, un bel palazzo nel
rione Trastevere, trovò aiuto e sostegno dalla cognata Vannozza, donna
devota, sensibile e di grande carità, che viveva con loro e che morirà
in odore di santità. Le due donne trasformarono la loro ricca dimora in
un punto di riferimento per i molti bisognosi della città, che non ne
uscivano mai a mani vuote. Le giornate di Francesca, che dal forzato
matrimonio ebbe tre figli, erano sempre piene, facendo emergere ben
presto, proprio nelle cose ordinarie di tutti i giorni, fatte con amore e
offerte al Signore, la sua santità. Non era legata alle mode e alle
vanità esteriori, vestendo sempre di scuro, con abiti semplici e
talvolta poveri, evitando quelli di seta o di stoffe preziose, così come
l’uso di scarpe dai tacchi alti, di gioielli, cuffie e veli preziosi,
oltre che senza curarsi eccessivamente dei capelli. Non era una donna
“dell’apparire” ma “dell’essere”, non “del parlare” ma “del fare”.
Cercava sempre di vivere il Vangelo nel quotidiano, trattava la servitù
con amorevolezza e pazienza, era accorta nell’amministrazione dei beni
di famiglia riuscendo sempre a fare elemosina verso i poveri ed era
affettuosa e attenta nell’educazione dei figli e nell’ascolto del
marito, quando la sera le raccontava i problemi della propria
professione di mercante. Inoltre, Francesca era anche donna di
preghiera, come poche altre. Dopo tutte queste numerose diverse
incombenze familiari, pur nella stanchezza, riusciva a consacrare una
parte della sua lunga giornata a Dio, nella preghiera. Da questa traeva
tutta la sua forza per le incombenze quotidiane e per l’instancabile
azione caritativa che ormai si estendeva in tutta la città. Anche la sua
generosa attività verso gli ammalati dei vari ospedali romani era
ovunque molto apprezzata. Visitava gli infermi quotidianamente, nei
nosocomi, nelle case o per strada, preparando loro, con grande maestrìa
dovuta ai suoi studi specifici, sorprendenti ed efficacissimi unguenti e
medicinali a base di erbe, con i quali curava efficacemente le malattie
più diverse, mentre si era specializzata anche nell’assistenza al parto
e nella cura delle patologie femminili. Nell’adempiere quotidianamente
la sua opera meritoria, Francesca dovette affrontare anche molte e
gravose difficoltà, ostacoli che le metteva in mezzo il maligno.
Infatti, col crescere della sua trascendenza, i combattimenti contro i
demoni sognati da ragazza si materializzarono potentemente,
costringendola a una vera e propria battaglia spirituale. A Roma,
intanto, arrivò anche la guerra fratricida, portata dalle truppe del
confinante Regno di Napoli, con il suo orribile seguito di violenza,
miseria e disperazione, che procurò a suo marito una brutta ferita e
l’invalidità permanente. Poco tempo dopo venne anche una terribile
peste, che le strappò via ben due figli. La Roma di quei giorni,
saccheggiata e umiliata, trovò in questa donna, ormai conosciuta da
tutto il popolo, un modello di fede e una guida. Essa donò con
generosità i suoi beni per sfamare gli affamati e curare i malati,
arrivando, quando c’era bisogno, a mendicare per aiutare i bisognosi.
S’impresse in quegli anni, nell’immaginario collettivo dei romani, la
figura di “Ceccolella”, come lei era affettuosamente chiamata nella
parlata romanesca, che percorreva sul suo umile asinello le strade della
fame, sempre sorridente e generosa. Con l’esempio, la bontà, la
pazienza, l’azione caritativa verso malati e bisognosi, e con le
continue ma discrete esortazioni a vivere il Vangelo e gli insegnamenti
di Cristo, Francesca finì per conquistare al Signore un gruppo di donne
della nobiltà cittadina, che presero a seguirla. Così, il 15 agosto
1425, unitamente a nove compagne, tutte esponenti di facoltose famiglie
romane, con l’intento iniziale di creare a una confraternita di
devozione, chiese di essere accolta col suo gruppo, quale oblata, nella
famiglia religiosa del Monastero Benedettino Olivetano di Santa Maria
Nova in Roma. Nell’attesa della deliberazione dell’abate generale della
Congregazione, che prevedeva un lungo iter burocratico, il 25 marzo
1433, prese in affitto un'abitazione presso la Torre de' Specchi, nel
rione Campitelli di Roma (oggi monastero omonimo), dove le sue compagne
iniziarono a condurre vita comune nella preghiera e nel lavoro manuale,
vivendo da eremite all'interno delle mura urbane, legate da promessa di
stabilità e obbedienza, ma senza voti e senza clausura, mentre lei non
tralasciava gli obblighi verso il coniuge e il figlio rimasto. Per
costituire la sua comunità in modo ufficiale, Francesca si rivolse
direttamente a papa Eugenio IV (dal 1431 al 1447), che, con lettera del 4
luglio 1433, concesse alle sue oblate il privilegio di condurre vita
regolare, di eleggersi una presidentessa, l'esenzione dalla
giurisdizione del parroco locale, di scegliersi liberamente un
confessore e di accogliere altre donne. A questa collettività, Francesca
diede degli ordinamenti che affermava esserle stati suggeriti dalla
Madonna stessa. Morto il marito nel 1436, anche lei poté raggiungere
definitivamente le sue amiche nel monastero, dove fu eletta capo del
gruppo e assunse il secondo nome di Romana, col quale era stata sempre
chiamata dal popolo romano, che la considerava “una di loro”. Trascorse
gli ultimi quattro anni di vita nel convento, dedicandosi soprattutto a
tre compiti: formare le sue discepole secondo le illuminazioni che Dio
le donava, sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia alle
quali erano chiamate e pregare per la fine delle divisioni all’interno
della Chiesa. L'abate generale della Congregazione di Monte Oliveto,
Battista da Poggibonsi, approvò le oblate il 9 agosto 1439 e concesse
loro un'ampia autonomia dai monaci. Francesca morì l’anno dopo, il 9
marzo del 1440, nella sua vecchia casa familiare in Trastevere, dove si
era recata per visitare il figlio e la nuora. Dopo il funerale, che fu
un trionfo popolare, le sue spoglie vennero inumate nella cripta, sotto
l’altare maggiore, della basilica romana di Santa Maria Nova al Foro,
officiata dai monaci Benedettini Olivetani, dove si trovano tuttora.
L’edificio sacro le fu intitolato il 29 maggio 1608, al momento della
sua canonizzazione da parte di papa Paolo V, ancora una volta con grande
festa cittadina e numerosissima partecipazione di popolo. Nel capitolo
del 1947 le “Oblate di Tor de' Specchi” - come si chiamavano -
stabilirono di costituirsi in Congregazione di suore e, come tali,
furono approvate da papa San Giovanni XXIII nel 1958, assumendo la
denominazione di “Congregazione delle Oblate di Tor de’ Specchi”, che in
seguito saranno dette anche “Oblate di Santa Francesca Romana”.
Roberto Moggi
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