Oggi
- 6 febbraio 2024 - martedì della V settimana del tempo ordinario, la
Chiesa celebra la memoria obbligatoria dei santi Paolo Miki e compagni,
martiri. Con questo nome (ma sono indicati anche come “Martiri del
Giappone” o “Martiri di Nagasaki”), si indica un gruppo di ventisei
cristiani, composto in prevalenza da giapponesi e missionari europei
della Compagnia di Gesù e dell’Ordine di San Francesco, martirizzati a Nagasaki
(Giappone) il 5 febbraio 1597. Paolo (questo il nome ricevuto con il
battesimo cattolico, nella traslitterazione nell’alfabeto latino),
capofila del gruppo, nacque verso il 1556 a Tsunokuni nei pressi di
Kyoto, nell’isola di Honshū, la più grande del Giappone (dove si trova
anche la capitale Tokyo). La sua famiglia d’origine, nobile e agiata,
era già cattolica a seguito della conversione di suo padre, che era un
Samurai (membro della famosa nobile casta militare del Giappone
feudale). Fu battezzato nel 1561 all’età di cinque anni e crebbe in un
ambiente familiare e sociale caratterizzato da profonda fede, tanto da
manifestare presto la vocazione religiosa. Così, nel 1578, entrò nel
noviziato giapponese della “Compagnia di Gesù”, i cui sacerdoti sono
detti gesuiti, solo da qualche decennio penetrata nel “Paese del sol
levante” attraverso alcuni missionari occidentali. Siffatta introduzione
era cominciata nel marzo 1541, quando il gesuita spagnolo Francesco
Saverio, futuro santo, aderendo alla richiesta di evangelizzatori
formulata dal re del Portogallo Giovanni III, si era imbarcato in quella
capitale Lisbona per le colonie lusitane delle Indie Orientali
(l’Arcipelago Malese), giungendo per la prima volta in Giappone
nell'agosto 1549, a Kagoshima, città nell'estremità sud-occidentale
dell'isola di Kyūshū, la più meridionale del Paese. Qui s’intrattenne
solo pochi anni ma pose solide basi per il proseguimento della
cristianizzazione, continuata da altri missionari gesuiti e francescani,
ai quali si aggiunsero poi domenicani e agostiniani. L’opera fu tanto
proficua che nel 1590, ad appena una quarantina d’anni dalla prima
venuta di Francesco Saverio, i cristiani giapponesi arrivarono a essere
circa 200.000, dei quali molti a Nagasaki (isola di Kyūshū), diventata
il centro principale di questo piccolo Popolo di Dio orientale. Paolo
studiò e si formò in Patria presso i collegi gesuiti aperti ad Azuchi e
Takatsuki, divenendo, sebbene non fosse ancora presbitero, membro
missionario dei gesuiti. Riusciva bene in tutto e fondamentale era la
sua profonda conoscenza della cultura del suo popolo a tutti i livelli,
che gli permetteva di dialogare con i vari strati sociali della società
nipponica, dalla gente colta, ai monaci buddisti e shintoisti, fino alla
gente più povera e analfabeta, spesso oppressa da autorità feudali e
padroni senza scrupoli. Purtroppo, però, nonostante ne avesse acceso
desiderio e fosse altamente preparato, non poté essere ordinato
sacerdote a causa dell'assenza d’un vescovo in Giappone, necessario per
la consacrazione. Tuttavia, secondo alcuni agiografi, quest’ultima
potrebbe essere avvenuta in seguito. In ogni caso, Paolo si applicò al
massimo nella sua missione, riuscendo a dialogare efficacemente con ogni
ceto sociale. Mediante la testimonianza fornita con la propria vita
onesta, col suo modo di fare rispettoso, leale e umile, oltre che con la
sua grande cultura, si guadagnò la stima e il rispetto di tutti.
L’evangelizzazione della sua gente sembrava avere un sicuro avvenire,
ricco di soddisfazioni apostoliche e di risultati in termini di
conversioni, quando all’orizzonte s’intravidero nubi foriere di dolore e
persecuzione. Invero, nel 1587, lo Shogun (la più alta carica militare
giapponese) Hideyoshi Toyotomi promulgò, con l’avvallo dell’imperatore,
un editto d’espulsione per tutti i missionari e predicatori cristiani
stranieri, dando il via alla persecuzione. Ci furono inoltre condanne al
rogo per tutti i giapponesi convertiti che non avessero ritrattato,
chiese bruciate nei villaggi, proprietà confiscate, altre esecuzioni
capitali e condanne al carcere duro, ma il maggiore accanimento fu nei
riguardi dei missionari e dei loro collaboratori e catechisti di etnia
giapponese, specialmente nelle città di Kyoto, Osaka e Nagasaki, le più
cristianizzate. La persecuzione contro i cristiani indigeni, considerati
traditori, andò aumentando e raggiunse il suo culmine. Così, nel
dicembre del 1596, Paolo Miki venne arrestato insieme ai due confratelli
giapponesi Giovanni di Goto e Giacomo Kisai, a sei frati missionari
spagnoli provenienti dalle Filippine. ufficialmente ambasciatori presso
l’Impero del Giappone, ai loro quindici catechisti e discepoli locali
terziari francescani e a due laici. Tutti furono fatti partire per
Nagasaki. Paolo, anche in questa circostanza difficile, rifulse con la
sua personalità e con la sua santità, diventando per tutti un punto di
riferimento, esempio di coraggio, pazienza e costanza nella sofferenza
per la vera fede. Giunti a destinazione, furono invitati tutti a
rinnegare Gesù, ma nessuno lo fece, pur nella piena consapevolezza di
cosa avrebbe significato quella scelta d’amore e fedeltà. Furono
insultati, minacciati, bastonati, mutilati col taglio di un orecchio
ciascuno ed esposti al ludibrio del popolo pagano, ma nessuno cedette,
finendo per essere tutti condannati a un’atroce morte per crocifissione.
Il 5 febbraio 1597 vennero crocifissi sulla collina di Tateyama, nei
pressi di Nagasaki. Secondo il passio che lo riguarda, Paolo continuò a
predicare anche dalla croce, fino alla morte. Compreso lui, erano
complessivamente ventisei i cristiani, fedeli al Signore fino
all’effusione del proprio sangue, che morirono, qualcuno pregando in
silenzio, qualche altro cantando i salmi, ma tutti perdonando ad alta
voce i loro carnefici, lieti che fosse stato loro concesso di morire
allo stesso modo di Cristo. Erano i primi martiri cristiani in terra di
Giappone, preziosissimo sangue procace di tante nuove conversioni in
quella terra d’Oriente. Paolo Miki, unitamente ai suoi eroici
venticinque compagni di martirio, è stato beatificato da papa Urbano
VIII il 14 settembre 1627 e proclamato Santo dal Beato papa Pio IX l’8
giugno 1862.
Roberto Moggi
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