San Gabriele dell’Addolorata

Oggi - 27 febbraio 2024 - martedì della II settimana del tempo di Quaresima, la Chiesa ricorda, tra i vari santi e beati, San Gabriele dell’Addolorata, religioso. Francesco, questo il suo nome di battesimo, nacque il 1° marzo 1838 ad Assisi, nella delegazione apostolica di Perugia dell’allora Stato Pontificio (oggi in provincia di Perugia, regione Umbria). Il padre era il nobile ternano Sante Possenti, governatore pontificio della città, e la mamma la nobildonna Agnese Frisciotti. Fu battezzato lo stesso giorno del parto nella cattedrale cittadina di San Rufino, allo stesso fonte battesimale in cui era stato iniziato alla vita cristiana San Francesco d'Assisi, in onore del quale ricevette il nome. Nel 1841, il padre fu nominato assessore al tribunale pontificio di Spoleto (Perugia), trasferendosi in quella città con tutta la famiglia. Qui Francesco, chiamato affettuosamente “Checchino” dalla parentela e dagli amici, visse la sua infanzia e giovinezza. Nel 1851, a tredici anni, cominciò a frequentare il locale liceo del collegio dei Padri Gesuiti. Intelligente, esuberante, vivace e amante dello studio, riusciva ottimamente soprattutto nelle materie letterarie, tanto da vincere numerosi premi scolastici. Componeva poesie, anche in latino, e le recite scolastiche lo vedevano sempre protagonista. Elegante e spigliato, attraeva per la sua contagiosa allegria. Gli piaceva seguire la moda, vestendo sempre “a puntino”. Voleva primeggiare in tutto e “la bella vita” non gli dispiaceva affatto. Organizzava partite di caccia, partecipava a passeggiate e scampagnate, andava volentieri a teatro col padre e le sorelle e ancor più a ballare, tanto da essere conosciuto in città come “Il ballerino”. Ancora ragazzo rischiò la vita ben due volte, una in un incidente venatorio e un’altra a causa di una brutta malattia. In quest’ultima circostanza, gravissimo, promise a Dio di consacrarsi e diventare religioso se fosse guarito, ma, una volta ristabilitosi in salute, dimenticò l’impegno preso, continuando ad animare le serate nei salotti di Spoleto e a leggere molti romanzi, “sprizzando vita da tutti i pori”. Niente di strano, dunque, se qualche ragazza di buona famiglia s’invaghiva di lui. Nelle sale da ballo e nei salotti, con la sua parola pronta, propria, arguta, facile e piena di grazia, colpiva e attraeva. Checchino era un bel ragazzo e ne era consapevole. Nonostante tutto ciò, sul suo futuro sembrava piuttosto indeciso e preoccupato, presagio forse di una vocazione religiosa ancora assopita. In effetti, nel profondo del suo cuore così pieno d’affetto, si sentiva inappagato, mentre cresceva l’amore per Gesù, che si palesava nel suo animo buono, generoso, sensibile alle sofferenze dei poveri e appassionato alla preghiera, mentre sempre più frequentemente si affacciava alla sua mente l’ancor nebulosa idea di farsi frate “in un convento”. Ruppe gli indugi quando dovette fare i conti con l’imponderabilità della fragile esistenza umana, che lo portò alla maturazione attraverso ripetuti lutti familiari che lo colpirono duramente, prima con la morte di due sorelle e poi dell’adorata e ancor giovane madre. Inoltre, incappò ancora in alcune brutte malattie che gli fecero apparire le gioie umane brevi e inconsistenti. Fatale al suo precario equilibrio, tanto da spingerlo sempre più verso la vita spirituale, fu l’ultimo dramma, la morte dell’amatissima sorella Maria Luisa, il 17 giugno 1855. Seguì un anno particolarmente confuso e tribolato, trascorso senza che riuscisse a fare una scelta di vita definitiva, anche se le cose non erano più quelle di prima e vedeva il mondo in modo sempre più inconsistente. Francesco sussultò e finì quasi per smarrire il senno. Gli apparve chiara la necessità di un attento discernimento sulla propria esistenza, mentre tornava a mulinargli per la testa, con insistenza, la vecchia idea di consacrarsi totalmente a Dio nella vita religiosa. A farlo decidere, pensò personalmente la Madonna il 22 agosto 1856, a Spoleto, durante la consueta processione annuale della sacra icona mariana, che, uscendo dal duomo, percorreva le vie cittadine in processione, tra due ali di folla. Gabriele, in ginocchio tra la gente, “avvertì” che l’immagine della Madonna si era “animata”, con gli occhi che erano divenuti “due lame scintillanti”, mentre una voce gli risuonava chiarissima nel cuore: “Ancora non capisci che questa vita non è fatta per te? Segui la tua vocazione!”. Questo episodio prodigioso, noto nella sua agiografia come “Locuzione mariana”, fu il colpo decisivo che mise fine a tutti i suoi tentennamenti e questa volta non ebbe dubbi. Una volta presa l’irrevocabile decisione, nessuno riuscì a trattenerlo e fu anche in grado di superare la forte ostilità del padre, vincendone tutti gli argomenti ostativi e persuadendolo della natura genuina della sua vocazione. Così, il 6 settembre 1856, partì da Spoleto e si recò al convento della Congregazione dei Passionisti di Morrovalle, nella cosiddetta Marca, anch’essa parte dello Stato Pontificio (oggi in provincia di Macerata, regione Marche), dove iniziò il noviziato. Da quell’istante fu tutta una volata verso la Santità. Proprio lui, il ballerino elegante e raffinato, il brillante animatore dei salotti di Spoleto, aveva scelto di entrare nell’austera vita dei Padri Passionisti, fondati nel 1769 dal presbitero San Paolo della Croce (1694-1775). Una congregazione religiosa “di voti semplici”, il cui nome completo è “Congregazione della Passione di Gesù Cristo” e i cui membri sono detti appunto “Passionisti”, col carisma di annunciare, attraverso vita contemplativa e apostolato, l’amore di Dio rivelato nella Passione di Cristo. Quando aveva circa diciotto anni, dunque, Francesco voltò pagina e affrontò una nuova vita. Come previsto dalla regola della Congregazione, affinché sia chiaro al novizio che il suo passato non esiste più, cambiò anche nome: da quel momento in poi si chiamò “Gabriele dell’Addolorata”, coniugando il nome dell’Arcangelo Gabriele e quello della Santissima Vergine Maria Addolorata, che rifletteva la sua vocazione mariana, radicata in lui fin dall'infanzia. La sua nuova vita fu radicale fin dall’inizio, da innamorato, per sempre. Aveva trovato finalmente la pace e la felicità. Non gli facevano certo paura le lunghe ore di preghiera, le penitenze e i digiuni, perché Dio che gli riempiva il cuore di gioia. Lo scrisse subito al papà, comunicandogli che la sua vita era ora una continua gioia e la contentezza che provava quasi indicibile, specificando che non avrebbe cambiato un solo quarto d’ora di quel modo di vivere. Il 22 settembre 1857, al termine del noviziato, emise la professione religiosa e pronunciò il voto specifico dei Passionisti, la diffusione della devozione a Gesù Crocefisso e alla Sua Passione. Non pago, in ossequio al suo precoce amore mariano, in seguito emise anche il voto di diffondere la devozione alla Vergine Addolorata. I suoi scritti, soprattutto l’epistolario e le pagine di spiritualità, riflettono questa sua stretta relazione con il Signore e la Vergine Maria. In particolare, nelle “Risoluzioni”, mutuate da San Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), descrive in dettaglio la via che seguì per raggiungere tale unità con la Passione di Cristo e i dolori di Maria, conseguendo così la perfezione secondo la Regola Passionista. Il 10 luglio 1859, allo scopo di farlo preparare al sacerdozio con lo studio della teologia, fu trasferito nell’isolato piccolo convento di Isola del Gran Sasso, comune ai piedi dell’omonimo massiccio montuoso, il più alto degli Appennini, situato nella parte centrale dell’Abruzzo, provincia dell’allora Regno delle Due Sicilie (oggi in provincia di Teramo, regione Abruzzo). Il 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno d’Italia, che ora comprendeva i territori dello Stato Pontificio e del Regno di Napoli, entrambi soppressi e annessi. Alla fine del medesimo anno, si ammalò di tubercolosi ossea, ma si sforzò sempre di seguire in tutto la vita regolare comunitaria compatibilmente con la malattia. Nonostante l’aria salubre del posto, ogni cura fu vana. Non riuscì a diventare sacerdote a causa della sua precaria salute, ma anche perché sopravvennero difficoltà politiche, legate alle leggi anticlericali del nuovo Regno, che inglobava quasi tutta la Penisola Italiana e in cui si trovava ora il convento. Trascorse sei anni nella Congregazione Passionista, dal 1856 al 1862, passandone gli ultimi due e mezzo sempre chiuso a isola nel “Conventino”, così veniva chiamato, tra ascensioni spirituali e lavorio interiore le cui profondità sono note unicamente a Dio. Solo qualche sortita all’aria aperta tanto per illudere i polmoni già minati dalla tubercolosi, il male sottile che presto lo avrebbe condotto alla tomba. Frutto delle sue riflessioni e dei doni spirituali da cui veniva arricchito da Dio, sono gli ultimi scritti epistolari ed in particolare il suo originale “Simbolo Mariano”, una sorta di piccola sintesi teologico-spirituale della sua imitazione mariana. Mantenne fino alla fine la sua abituale serenità d’animo, al punto che gli altri confratelli erano desiderosi di passare del tempo al suo capezzale, oltre che per i normali doveri di assistenza, per il piacere che ne ricavavano. Gabriele si rese presto conto che non c’era più niente da fare. Il cammino della sua vita era già finito. Tuttavia non si sconvolse, perché per lui contava solo la volontà di Dio. La mattina del 27 febbraio 1862, al sorgere del sole, Gabriele, ormai pronto a presentarsi al cospetto del buon Dio, con il volto trasognato e gli occhi sfavillanti che trafiggevano un punto fisso sulla parete sinistra della sua cella, sorrideva alla Madonna che era venuta a incontrarlo. Dal suo letto di sofferenza salutò tutti i confratelli riuniti al suo capezzale, promise di ricordarli tutti in paradiso, chiese perdono e preghiere e poi finalmente e santamente morì, confortato dalla visione della Madonna che invocò per l’ultima volta, chiedendole “di far presto”, mentre stringeva al petto una Sua immagine nel titolo di Addolorata. Aveva solo ventiquattro anni, ma aveva già varcato la soglia della vita senza principio né fine. Fu seppellito nello stesso “Conventino” e la sua fu subito da tutti ritenuta la morte di un santo. Ciascuno ricordava di lui i brevi giorni terreni, all’apparenza così comuni, la semplice vita d’ogni giorno, quel “quotidiano” che fu il suo pane e quella semplicità che fu il suo eroismo. Ragguardevoli erano le piccole fragili cose di ogni giorno che diventavano grandi per lo spirito con cui le compiva. Tutti ricordavano la sua vita trascorsa all’ombra del Crocefisso e della statua di Maria Addolorata, che fu la ragione della sua vita. Le tappe della sua santità senza gesta clamorose, invero, furono contrassegnate proprio da una vita semplice nell’eroicità nel quotidiano e dalla struggente devozione alla Vergine Addolorata. Volle strappare dal cuore ogni minuzia che non palpitasse esclusivamente per il Signore. Nel 1866, la comunità Passionista di Isola fu costretta ad abbandonare il “Conventino” in forza di un iniquo decreto massone di soppressione degli ordini religiosi, emesso dal Regno d’Italia. La tomba di Gabriele sembrò così dover essere abbandonata per sempre, ma, per grazia di Dio, non fu così. Nel 1892, difatti, a trent’anni dalla sua morte, sulla sua tomba accaddero i primi strepitosi prodigi. Il 17 e 18 ottobre 1892 si procedette alla riesumazione della salma sotto stretta sorveglianza del popolo, già ferventemente devoto del piccolo Passionista, che non voleva sentir parlare di trasferimento delle sue ossa. In quella stessa giornata si parlò di almeno “sette prodigi di rilievo”. Così Gabriele restò definitivamente in Abruzzo e cominciò una catena ininterrotta di prodigi, operati per sua intercessione. Fu dichiarato Beato dal papa San Pio X il 31 maggio 1908 e, nello stesso anno, fu innalzata in suo onore la prima chiesa-santuario a Isola del Gran Sasso. Il 13 maggio 1920 il pontefice Benedetto XV lo proclamò santo. Nel 1926, Papa Pio XI lo dichiarò compatrono della Gioventù Cattolica Italiana e, nel 1959, il pontefice San Giovanni XXIII lo proclamò patrono principale d’Abruzzo. Nel 1970, a fianco di quello antico, fu inaugurato il nuovo santuario in cemento armato, vetro e acciaio, che pure porta il suo nome, capace di accogliere circa 6.000 pellegrini. I resti mortali di San Gabriele, dal 1914, sono posti in un'urna di cristallo che contiene una statua di cera le cui fattezze richiamano quelle del santo nella postura denominata "del riposo del giusto", disteso ma sveglio e orante. L'urna, anticamente posta in una cappella circolare all'interno del vecchio santuario, è stata successivamente trasferita nella cripta del nuovo santuario, aperta nel 1985. Invocano la sua protezione gli studenti, i seminaristi, i novizi ed è particolarmente ricordato e venerato dagli emigrati abruzzesi sparsi in ogni parte del mondo.
Roberto Moggi
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