Oggi
- 12 gennaio 2024 - venerdì della I settimana del tempo ordinario, la
Chiesa ricorda, tra i vari santi e beati, San Bernardo, noto con la
specificazione “da Corleone”, religioso. Filippo - questo il suo nome di
battesimo - nacque nel 1605 a Corleone presso Palermo, nell’allora
Vicereame di Sicilia appartenente alla Regno d’Aragona (oggi comune in
provincia di Palermo, capoluogo della Regione Sicilia). Quinto figlio di
un modesto calzolaio e conciatore di
pelli, visse fin dalla più tenera infanzia un clima familiare di
autentica santità. L’umile dimora dei genitori, infatti, era comunemente
definita “La casa dei santi”, per la bontà e generosità della mamma e
del padre, il quale era abituato a portarsi a casa i poveri incontrati
per strada, per ripulirli e sfamarli come poteva, e per quella dei
fratelli, dei quali uno divenne sacerdote. Ancora molto piccolo fu
avviato dal padre al suo stesso mestiere, rimanendo del tutto
analfabeta. L’unica “testa calda” della famiglia era lui, ragazzino
dalla costituzione forte e imponente, che perdeva il tempo a osservare
le esercitazioni di scherma degli ufficiali e soldati del locale
presidio spagnolo. Così, ben presto, seguendo il suo giovanile
temperamento e il carattere ardimentoso, cominciò a prendere lezioni
sull’uso dei vari tipi di spada e a esercitarvisi con costanza, fino a
quando, attorno al 1623, abbandonò la bottega paterna per darsi
all’attività a lui più congeniale “delle armi”, tanto in voga in quei
tempi burrascosi e violenti, che lo portò, a soli diciotto anni, a
essere considerato una delle “migliori lame”, come si diceva
nell’ambiente, di tutta la zona. Non è esattamente quello che avrebbero
voluto i suoi, ma le ragioni a favore della spada - in quell’epoca -
avevano più di qualche peso. Per dirla in breve, al buon spadaccino si
portava rispetto, anche se figlio di un calzolaio. Questa scelta non gli
impedì, tuttavia, di mantenere la fede e l’assiduità ai Sacramenti e,
divenuto membro al tempo stesso della locale milizia cittadina e dei
Terziari Francescani, non tralasciò le opere di misericordia a favore
dei poveri, degli ammalati e degli oppressi. Focoso e cavalleresco,
tante volte affrontò situazioni pericolose, duelli e combattimenti per
difendere le sacrosante ragioni delle persone più umili, da sempre
prevaricate dai potenti. Una volta difese spada in pugno la purezza di
una ragazza, insidiata dalla soldataglia spagnola e, per la bravura
dimostrata nel combattimento che ne seguì, fu da allora chiamato “Prima
spada di Sicilia”. Chiunque veniva a duello con lui, insomma, ne usciva
irrimediabilmente sconfitto o anche peggio. Tuttavia, egli non era né
attaccabrighe, né litigioso, né crudele, semplicemente era intollerante
davanti alle prepotenze e ai soprusi, per il suo innato senso della
giustizia e dell’onore, che gli facevano mettere facilmente mano alla
spada per giustizia. In un’occasione, nel 1624, fu provocato per strada,
offeso e sfidato a duello da un certo Don Vito Canino, nobile di
Palermo, temibilissimo con la spada in mano, che era invidioso dei suoi
successi. Senza esitazione, si batté con lui a pubblico duello in
piazza, ferendolo gravemente a un braccio che restò per sempre menomato o
che, forse, dovette poi essere addirittura amputato. Da quel momento
qualcosa cambiò radicalmente nella sua anima e non fu più tanto sicuro
della propria condotta di vita. La vista del sangue che scorreva copioso
dalla brutta ferita del nobile ferito, il timore della vendetta e delle
conseguenze anche di legge, lo portarono a darsi alla latitanza per un
certo periodo e, in seguito, a cercare rifugio nel locale convento dei
Frati Francescani Minori Cappuccini. Qui, nella pace e nel silenzio del
luogo sacro, lontano da ogni mondanità, sentì chiara la chiamata del
Signore e maturò una solida vocazione religiosa, da sempre esistente ma
“assopita” in lui, fino al punto di chiedere di entrare nell’Ordine. I
saggi frati, però, prima di accoglierlo, fecero fare un’opportuna
“anticamera” alla “Prima spada di Sicilia”. I suoi bollenti spiriti si
stemperarono lentamente con l’esercizio continuo della preghiera, della
penitenza e della meditazione, tanto che, alla fine, venne fuori un uomo
nuovo. Analfabeta e pertanto destinato a essere un frate laico,
svolgeva in convento i lavori più umili, in cucina e in lavanderia.
Superiori e confratelli sembravano esercitarsi a farlo bersaglio
d’incomprensioni, malignità e umiliazioni attraverso le quali lui
passava però imperturbato. La sua anima e la sua fede piacevano molto al
Signore, tant’è vero che anche il demonio non lo lasciava tranquillo,
apparendogli sotto forma di animale spaventoso e bastonandolo così
rumorosamente da impaurire tutto il convento. Egli, in ogni caso, lo
teneva a bada con la preghiera, spiegando che “l’orazione era il
flagello del demonio”. Si sottoponeva a penitenze che hanno
dell’incredibile, soprattutto per un uomo della sua stazza e
dall’appetito robusto, che si accontentava invece di qualche tozzo di
pane duro e a volte si privava anche di quello. Infine, il 13 dicembre
1631, poté finalmente indossare il saio francescano nel noviziato
cappuccino del convento di Caltanissetta, assumendo il nome di Bernardo e
iniziando, da quel momento e con tutte le sue forze, una vita di ancor
più dura penitenza. Erano passati sette anni dal duello sciagurato e lui
era ora un altro uomo, dopo un travaglio niente affatto gratuito,
facile e nemmeno rapido. Destinato ai servizi più modesti e faticosi,
quale cuoco, addetto alla lavanderia e all’orto, servì con dedizione
umile e totale i confratelli, dormendo sopra un letto di tavole e
sottoponendosi a rigorosi digiuni e penitenze corporali, tanto che i
superiori dovettero proibirgli l’uso di certi strumenti di contrizione.
Vi fu anche chi lo prese per bugiardo, ma egli sopportò tutto con
pazienza e carità. Ordinari rimedi erano per lui la preghiera, il lavoro
continuo e il servizio ai confratelli, specialmente se ammalati. Tanto
che, trovandosi una volta nel convento di Bivona (Agrigento) durante
un’epidemia contagiosa, unico a non aver contratto la malattia, si
prodigò a curare i confratelli e ad assisterli in ogni necessità senza
timore di contagio. La sua opera di assistente agli infermi e, in
qualche modo, di “infermiere”, si estendeva anche agli animali, in un
tempo in cui la malattia o la morte di un animale adibito al lavoro in
campagna poteva significare la rovina di una povera famiglia. Si fece a
suo modo esortatore e predicatore con certi suoi piccoli “sermoni in
rima”, molto famosi e apprezzati dal popolo. Col tempo, divenne un
mistico, particolarmente innamorato della Passione e della Croce di
Cristo. Narrano le cronache che una volta, incerto se dovesse imparare a
leggere e scrivere, distogliendo tempo prezioso dalle sue attività,
durante la preghiera udì la voce di Gesù che gli rispondeva, dicendogli
di non cercare alcun libro e di farsi bastare “quello delle sue piaghe”.
Fù poi destinato a Palermo, città dove, nella locale chiesa dei
Cappuccini, è ancora in venerazione un Crocefisso davanti al quale
Bernardo passava lunghe ore del giorno e della notte meditando e
pregando. Fu davanti ad esso che, in un’altra occasione, gli apparve
Cristo che, intriso un pezzetto di pane nel sangue del proprio costato,
glielo porgeva, invitandolo a perseverare nella dura vita che aveva
intrapreso. Trovò il suo posto abituale accanto al tabernacolo, dove
pregava in continuazione. Nel convento di Palermo, consumato dalle
penitenze e dalla fatica, infine si ammalò il giorno dell’Epifania del
1667, morendo il 12 gennaio dello stesso anno, appena sessantaduenne.
Prima di poterlo seppellire, i confratelli furono costretti a cambiargli
per ben nove volte la tonaca, perché tutte erano state fatte a
pezzettini dai fedeli che volevano avere una sua reliquia. Fu sepolto
all’interno della chiesa annessa allo stesso convento dei Cappuccini, a
Palermo, dove i suoi resti riposano tuttora. Fu beatificato nel 1768 dal
papa Clemente XIII e canonizzato il 10 giugno 2001 dal pontefice San
Giovanni Paolo II.
Roberto Moggi
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