La fame e l'abbondanza

LA FAME E L'ABBONDANZA

di Massimo Montanari

Con la lettura di questo libro pare evidente che la dieta mediterranea ha radici ideologiche radicate nella storia: Massimo Montanari rende ovvia questa conclusione ripercorrendo la storia d'Europa dal III secolo d.C. fino ad oggi, ma analizzandola in una chiave di lettura particolare, quella del cibo e dei comportamenti alimentari.

Questo percorso ha inizio nel Medioevo, dove la normativa ecclesiastica imponeva al buon cristiano di astenersi dalla carne per qualcosa come 140-160 giorni all'anno; il consumo della carne aveva infatti un'immagine "pagana" (ricordava il sacrificio degli animali). La base filosofica era comunque da ricercarsi nel pacifismo vegetariano, erede del pensiero greco ed ellenistico; di qui la necessità di alimenti alternativi e "magri".

Per il Medioevo il rifiuto del cibo fu un valore spirituale, l'etica romana e poi quella cristiana credevano nella moderazione, una scelta culturale che contrastava con quella delle popolazioni nordiche, per le quali invece l'immagine guerriera era legata all'eccesso: l'eroe mangiava in modo smisurato.

Ad ogni modo, fino al X secolo solo pochi potevano permettersi la carne, la base dell'alimentazione era la segale, un cereale più coltivato e più robusto del frumento: il pane di frumento, re della tavola romana, era diventato un prodotto di lusso.

A partire dall'VIII secolo la popolazione aveva incominciato a crescere, i monaci si erano fatti promotori della diffusione delle tecniche dell'agricoltura in tutta Europa; l'alimentazione dei ceti inferiori si basava su cibi di origine vegetale, mentre la carne era una sorta di status symbol. Uno tra gli aspetti che fino a questo punto colpiscono nella lettura è infatti la costante contrapposizione tra l'alimentazione prevalentemente carnivora e il nutrimento in cui prevalgono i prodotti della terra, queste visioni si fronteggiano costantemente sulla base di motivazioni ideologiche e filosofiche: alla alimentazione a forte componente vegetale veniva attribuito un valore fortemente simbolico legato al concetto di purezza, di leggerezza; al forte consumo di carne viene legata l'idea della forza, della potenza, della virilità.

Nel XII secolo la nascita dei commerci e di una economia di mercato favorisce la distinzione tra due modelli alimentari: quello della campagna e quello della città.

E' nel 1200 che nascono le buone maniere: si va a tavola non solo per sfamarsi ma anche per divertirsi, per ascoltare la musica, per partecipare alla dimensione conviviale. Man mano che la nobiltà guerriera cede il passo alla nobiltà di corte e cambia la nozione di potere (non più capacità fisica, ma abilità amministrativa e diplomatica), occorre esprimere il potere anche attraverso il cibo: nascono i banchetti con le vivande esposte e presentate più che servite e nascono i libri di cucina.

Le spezie giungono dai paesi esotici sempre più numerose e passano dall'ambito farmaceutico a quello gastronomico: esse faranno la fortuna dei mercanti veneziani, che diventeranno sempre più ricchi e in cerca di lusso.

Insomma, tra il XIII e il XV secolo la cultura europea mette a punto una koinè gastronomica, che ha la sua sede nelle città; di conseguenza, il contrasto tra città e campagna aumenta, la dieta del contadino è sempre più povera, tanto che la grande epidemia di peste, tra il 1347 e il 1351, decimerà la popolazione delle campagne, debilitata dalla carenza di proteine animali e grassi. Inoltre, fatto ancora più interessante, per la scienza medica europea del Medioevo si deve mangiare secondo le qualità della persona: c'è un rapporto fra regime alimentare e stato sociale: ai poveri fanno male cibi troppo raffinati, ai ricchi cose pesanti, è un fatto fisiologico che la scienza non contesta.

Il povero contadino si rifarà quando dalle Americhe arriveranno nuovi protagonisti come il mais, ma contrariamente a quello che si pensa, dice Montanari, ci vorranno due o tre secoli prima che gli Europei abbandonino la diffidenza per mais, peperoncino, tacchino e pomodoro.

Fino ad allora l'Europa era, dal punto di vista alimentare, come un unico paese. Il grande cambiamento avviene con la Riforma protestante, che respinge la normativa dietetica della Chiesa romana; finisce la guerra alla carne e iniziano a contrapporsi due Europe: nei paesi cattolici restano in vigore le vecchie abitudini, mentre in quelli protestanti aumenta il consumo di lardo, strutto e altri grassi animali. Per l'olio è un colpo di grazia; anche le spezie poco a poco scompaiono e si afferma, soprattutto nel nord Europa, una cucina grassa.

Conquistano dunque un ruolo di primo piano riso, mais e patata, e il modo di mangiare degli europei cambia sostanzialmente: la polenta diventa il cardine del sistema di sopravvivenza dei contadini e in Italia è la pasta ad assolvere le stesse funzioni del mais e della patata, mentre il frumento rimane ancora un privilegio riservato solamente ai ricchi cittadini.

Le cose cambiano con la rivoluzione industriale, le classi povere non possono essere escluse dal godimento delle risorse alimentari: sono consumatori anche loro, l'industria ne ha bisogno per ampliare il mercato. Il povero può mangiare come il ricco, a patto che paghi; l'agricoltura si trasforma da produttrice di cibo a fornitrice di materie prime all'industria alimentare e il modello alimentare urbano costituisce ormai la norma anche in campagna.

Finalmente arriviamo ai giorni nostri , ora il cibo (nei paesi industrializzati) c'è per tutti, ma ciò che abbiamo ottenuto è anche un forte disorientamento culturale: non conosciamo più la stagionalità dei cibi e difficilmente ci è dato conoscere la loro provenienza.

L'uomo ha raggiunto il suo obiettivo, ma il rapporto con il cibo si è invertito: il pericolo e la paura dell'eccesso hanno sostituito il pericolo e la paura della fame.

Da:

https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-di-milano-bicocca/tecnologie-della-formazione/la-fame-e-labbondanza-massimo-montanari/58568329

Stralci di riassunto

Da

https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-di-parma/storia-e-cultura-dell-alimentazione/riassunto-completo-del-libro-la-fame-e-labbondanza-di-massimo-montanari/4802039

La carne dei forti-

Il primo strumento di integrazione fu, molto semplicemente, il potere. L'affermarsi politico e sociale delle tribù germaniche, diventate un po' ovunque il ceto dirigente della nuova Europa, diffuse in modo più ampio la loro cultura ed i loro atteggiamenti mentali, e con essi una maniera

nuova di intendere il rapporto con la natura selvatica e gli spazi incolti, avvertiti non più come una presenza ingombrante e come un limite alle attività produttive, ma piuttosto come spazi da usare.

Questo sarebbe stato inconcepibile qualche secolo prima, quando si riteneva, ad esempio, che un bosco di querce desse frutti, miele e anche carne, per cui era deleterio da estirpare.

Perché ciò accada ci vuole dunque un salto culturale, precisamente quello che si verificò nella società europea occidentale quando si diffusero i modelli produttivi e mentali tipici del mondo barbarico.

Parallelamente la carne divenne il valore alimentare per eccellenza; non stupisce allora l'attenzione per le carni di maiale, arrostite, lessate, al forno o in umido; le carni crude si consiglia evitarle, siccome il cibo ben cotto è più facilmente digeribile.

Nei ceti dominanti la carne appare come simbolo di potere, come strumento per costruire energia fisica, vigore, capacità di combattere, mentre astenersi dalla carne è un vero segno di umiliazione, di emarginazione dalla società dei forti, mettendo così in forte discussione la supremazia del pane.

Il pane (e il vino) di Dio-

Nel IV secolo la religione cristiana si affermò come culto ufficiale dell'impero e, fin da allora, si delineò come testimone ed erede della cultura greca e latina, oltre che dell'ebraica. Nato e cresciuto in un ambito di civiltà prettamente mediterraneo, il cristianesimo aveva subito assunto come simboli alimentari e come strumenti del proprio culto il pane ed il vino, prodotti costituenti la

base materiale ed ideologica di quella civiltà; anche l'olio divenne simbolo sacro insieme ai primi due; queste scelte implicarono senza dubbio la rottura con la tradizione ebraica, che escludeva dall'ambito sacrificale sia il pane che il vino.

L'abbuffata e il digiuno-

Anche l'atteggiamento complessivo nei confronti del cibo si era modificato molto: per la cultura greca e romana l'ideale supremo era quello della misura, ossia accostarsi al cibo con piacere ma senza voracità, offrirlo generosamente ma senza ostentazione. Al contrario, la tradizione culturale celtica e germanica, propone il grande mangiatore come personaggio positivo, che proprio mangiando e bevendo molto esprimesse una superiorità prettamente animalesca sui propri simili; soprattutto nelle regioni a forte impronta barbarica, l'immagine del guerriero valoroso è anche quella di un uomo capace di ingurgitare quantità enormi di cibo e di bevande.

Per quanto riguarda gli ambienti ecclesiastici, quelli del Nord Europa si mostrano particolarmente sensibili al problema del mangiare molto, tanto da prevedere razioni normali di consumo che la curia romana non esita definire ciclope, mentre quelli dell'area mediterranea si contraddistinguono per un maggiore senso dell'equilibrio, della discrezione individuale; in ogni caso, la prima regola fondamentale riguardante la dieta monastica, è il rifiuto della carne. Quanto al mondo dei contadini e della povertà, a differenza dei nobili essi non potevano permettersi di mangiare molto, limitandosi così a sognare grandi abbuffate di cibo, consumate esclusivamente in giorni particolari.

La gola della città-

La città era il perno attorno a cui ruotava l'intera vita economica, oltre che politica, dello Stato; il luogo in cui convergevano derrate agricole es ogni sorta di risorse alimentari, convogliate in gran

parte sul mercato cittadino, oltre che nei magazzini dei maggiori proprietari. Disgregatosi poi, in Occidente almeno, il tessuto politico e sociale dell'impero, le campagne europee avevano lungamente vissuto con altri, diversi punti di riferimento: comunità di villaggio, corti signorili, abbazie e chiese rurali. Forse anche per questo, il venir meno di un apparato statale opprimente, la società contadina aveva potuto riorganizzarsi su nuove basi, elaborando forme diverse di

economia e di sussistenza, prevalentemente destinate all'autoconsumo. La crescita agraria si accompagnò al rifiorire dei mercati, soprattutto su base locale, e fu accompagnata da un intervento legislativo coprente tutte le fasi del processo produttivo, a cui fecero eco i contratti agrari, privatamente stipulati dai proprietari terrieri con i contadini dei dintorni.

Il contadino iniziò così ad essere visto con occhi nuovi, non più un oggetto di dominio, ma uno strumento di lavoro per produrre di più, guadagnare di più.

Mangiare molto, mangiare bene-

Non senza tensioni, contraddizioni e contrasti, la società europea sembra aver raggiunto nella prima metà del XIII secolo una situazione di diffuso benessere: la crescita economica, pur con i costi che ogni crescita comporta in termini di emarginazione e di sperequazione sociale, non ha mancato di produrre effetti benefici sull'assetto complessivo delle città e delle campagne, portando ad una diminuzione delle carestie, soprattutto nelle città. I ricchi, come sempre, sposteranno più in alto la soglia della distinzione sociale; in un mondo dove l'abbondanza è più diffusa mangiare molto, come era costume delle classi dominanti europee, non bastava più. Rimane, certo, un importante tratto distintivo della nobiltà, ma occorreva anche mangiare bene, cercando allora di introdurre una ritualità conviviale fondata anche sull'eleganza e non più solo sulla forza.

Gastronomia e fame-

Agli inizi del Duecento, la requisitoria di papa Innocenzo III contro le vanità mondane non aveva risparmiato il peccato di gola e le nuove ghiottonerie che l'insana passione degli uomini era riuscita ad inventare. Non bastano più il vino, la birra, il sidro, i prodotti naturali della terra e degli animali. In effetti non si trattava do una novità in senso stretto; l'uso abbondante delle spezie era una pratica diffusa da tempo nella cultura europea.

Intanto bisogna sgombrare il campo da una falsa opinione, cioè che il largo uso di spezie fosse determinato dalla necessità di coprire, mascherare, camuffare il gusto di vivande troppo spesso mal conservate se non, addirittura, avariate. In primo luogo i ricchi consumavano carne freschissima, così come il pesce e, per la conservazione, ci si serviva della salagione, dell'essiccazione o dell'affumicatura, non delle spezie che, sotto parere anche medico, favorivano la digestione dei cibi grazie al loro calore. Fra i caratteri distintivi della nuova cucina europea sono certamente da annoverare le torte,soprattutto quelle ripiene in cui poteva entrarvi di tutto, dal pane alle uova, alla carne ed, addirittura, al pesce.


L'Europa e il mondo

Un bel paese di là dal mare-

L'ansia di scoperte e di nuove conoscenze che caratterizza il lungo periodo dei viaggi oltre Oceano, sembra coinvolgere anche la fantasia popolare. L'utopia cuccagnesca ed i sogni di abbondanza vengono proiettati nelle terre al di là del mare, che si immaginano ricche di ogni ben di Dio, riserve infinite di cibo. Anche le fantasie, però, hanno dei limiti, dettati dalla cultura in cui nascono: una cultura in cui ogni cosa ha il suo posto, il suo ruolo preciso, definito in rapporto a tutti gli altri; la cucina ed il regime alimentare non sono un assemblaggio casuale di elementi, ma un sistema globale e coerente.

Nuovi protagonisti-

Nel XVI secolo la popolazione aumentò notevolmente in molti paesi d'Europa e le strutture di produzione risentirono di questa cosa, le risorse alimentari cominciarono a scarseggiare. Rispetto al Quattrocento gli anni di insufficienza produttiva sono assai più numerosi e le rese cerealicole rimangono molto basse; la soluzione è dunque quella tradizionale, ossia di allargare lo spazio coltivano, attuare bonifiche, dissodamenti. In tutto ciò, il mais, solo di rado fu coltivato al posto degli altri cereali e gli orti erano esenti da canone: il contadino poteva piantarvici ciò che desiderava.

Il pane e la carne-

Con il passare degli anni il pane divenne sempre più indispensabile per la sussistenza quotidiana; il mercato continua ad offrire ai cittadini prodotti sempre piè differenziati di quanto possano permettersi i contadini, ma la razione giornaliera di pane è sempre al centro delle loro attenzioni, pur variando di quantità e di qualità secondo gli usi alimentari del luogo, le possibilità d'acquisto, l'andamento del raccolto ed il periodo dell'anno. Tale crescita non sorprende, data la contestuale discesa dei consumi carnei. I cereali, in ogni caso, assicuravano alla dieta popolare gran parte del fabbisogno energetico.

Ferocia borghese-

Con l'aggravarsi della situazione alimentare e l'incombente minaccia della fame, le manifestazioni di rabbia e di insofferenza assumono forme più esasperate e violente, come i saccheggi dei forni ed i grandi conflitti per il cibo. Nei momenti di crisi, folle di contadini e di miserabili si accalcavano alle porte dei centri urbani, maggiormente protetti dalla politica governativa; la ferocia borghese continua ad inasprirsi sempre di più, tanto che i poveri cominciano ad essere imprigionati insieme ai pazzi ed ai delinquenti ed, in Inghilterra, entrano in vigore le poor laws, ossia le leggi dei poveri, che andavano energicamente contro di essi.

Le due Europe-

Da un lato abbiamo i popoli del Sud, sobri e frugali, affezionati ai prodotti della terra ed ai cibi vegetali; dall'altro i popoli del Nord, voraci e carnivori. Probabilmente si tratta di stereotipi, di immagini scarsamente credibili se non associate a variabili di natura sociale. Nella zona settentrionale vi era l'abitudine di bere molto, conciliata con la bassa gradazione alcolica della birra.

Mangiamaccheroni-

Un altro cibo da riempimento su cui si concentrarono le attenzioni dei ceti popolari tra XVIII e XIX secolo fu la pasta, che in un'area dell'Europa geograficamente e culturalmente più circoscritta cominciò ad assolvere le stesse funzioni che altrove venivano assicurate dal mais o dalla patata.

Anzitutto occorre diversificare la pasta fresca dalla pasta secca, poiché la prima è un uso alimentare antico, diffuso presso molte popolazioni dell'area mediterranea e di altre regioni del mondo, mentre la pasta fresca ha un'origine molto più recente, inventata dagli arabi dopo aver escogitato la tecnica dell'essiccazione. Resta poi da definire il ruolo e l'immagine stessa della pasta nella cultura alimentare del tempo, cosa alquanto difficile poiché i libri di cucina stentano a definirla come categoria a sé, confondendo i diversi tipi di pasta; da un lato questo prodotto potrebbe sembrare un cibo popolare, destinato ai marinai e a quanti necessitavano di derrate a lunga conservazione, ma dall'altro lato potrebbe essere un cibo di lusso, riservato a gruppi ristretti di consumatori. Forse la pasta secca era davvero un cibo popolare, mentre quella fresca uno di lusso e di ghiottonerie, a meno che non vengano usati, al posto del frumento, cereali inferiori.

Alimentazione e popolazione-

Fra Settecento ed Ottocento, la crescita produttiva dell'agricoltura europea riuscì in qualche modo a sostenere la domanda alimentare di una popolazione che aumentava a vista d'occhio. L'aumento demografico non solo fu drammaticamente interrotto, ma continuò con crescente intensità: è possibile dedurre che fu proprio l'accresciuta disponibilità di cibo a portare all'exploit demografico? E che la crescita della popolazione fosse dovuta ad un generale miglioramento delle condizioni alimentari?

La progressiva semplificazione della dieta alimentare, orientata in modo sempre più massiccio ed univoco sul consumo di pochi generi alimentari,comportò un suo reale impoverimento rispetto al passato: mais e patate servono a riempire i contadini, il frumento è quasi tutto convogliato sui sistemi agrari; lo stesso vale per la carne, che i nuovi sistemi agrari ed i progressi della scienza zootecnica consentono di produrre in maggiore quantità, ma per lungo tempo non furono in molti a poterne approfittare. La curva demografica e la curva alimentare sono dunque speculari una all'altra? Parrebbe proprio di sì, quindi è difficile spiegare in termini di migliorato regime alimentare i fenomeni di crescita demografica; questo non significa ovviamente che regime alimentare e struttura demografica siano realtà fra loro estranee, ma, come sostenne Livi Bacci, l'efficacia del rapporto cibo-popolazione va ristretta ai soli fenomeni di breve durata, cioè alle crisi di mortalità.

La carne fa male-

Quanto alle privazioni alimentari, per cui si parla in primo luogo della carne, non manca chi si affretta a spiegarci che in fondo fanno bene alla salute. I contadini non possono mangiare carne? tanto meglio per loro, chi ha mai detto che bisogna mangiarne? Le controversie sull'uso della carne erano all'ordine del giorno: qualcuno ne era addirittura irritato perché, basandosi sulla credenza cristiana, il cibo vegetale era visto come cibo di pace e di non-violenza, come scelta di vita naturale, semplice, frugale, come strumento di leggerezza corporea che consente alla mente di lavorare liberamente. L'appetito gagliardo e l'abbondanza di carne non sono più oggetto di unanime apprezzamento sociale.

Un cibo per tutte le stagioni-

Uno dei miti più tenaci dell'odierno immaginario alimentare è quello della stagionalità del cibo, di un rapporto armonico fra uomo e natura, che sarebbe stato tipico della cultura tradizionale e che i sistemi moderni di approvvigionamento e di distribuzione avrebbero profondamente alterato.

Senza dubbio, la prepotenza con cui l'industria alimentare ha fatto irruzione nei nostri ritmi di vita ha sconvolto gran parte delle antiche abitudini, generando, assieme a molti benefici, perplessità di

natura igienico-sanitaria ed un notevole disorientamento culturale. In passato l'appartenenza territoriale dei prodotti era un fattore scontato e per così dire inevitabile, ma gli uomini hanno sempre desiderato superare i limiti col territorio. Inoltre, se la risoluzione dei trasporti e l'organizzazione commerciale ci hanno fatto un po' dimenticare che il cibo è indissolubilmente legato alle vicende del clima e delle stagioni, non possiamo nasconderci che esattamente questo è stato per millenni il grande desiderio degli uomini, un importante

obiettivo ella loro organizzazione alimentare. Il modo povero con cui si cercò di sconfiggere le stagioni furono le tecniche di conservazione del cibo, ecco perché l'uso di cibi freschi e deperibili era un lusso per pochi. È dunque problematico attribuire alla tradizione alimentare atteggiamenti di serena simbiosi con la natura e di entusiastico amore per la stagionalità dei cibi.

Il piacere, la salute, la bellezza-

Durante la storia alimentare ci fu un periodo di desiderio di grasso, nel duplice senso latino di mancanza e di voglia, da cui deriva un corrispondente estetico: essere grassi è bello, è segno di ricchezza e di benessere alimentare, sia in senso generale, quantitativo, sia in senso più specifico, qualitativo. Il valore della magrezza, collegato a rapidità, produttività, efficienza, sembra proporsi come nuovo modello estetico e culturale solo nel corso del Settecento, ad opera di quei gruppi sociali che si opponevano al vecchio ordine in nome di nuove ideologie e di nuove ipotesi politiche, poi anche nella prima metà del Novecento.

Occorre infine considerare lo slittamento di significato della parola dieta: inventata dai greci per designare il regime quotidiano di alimentazione che ogni individuo deve costruire sulle proprie personali esigenze e caratteristiche, passata a designare la limitazione e la sottrazione di cibo; una nozione negativa anziché positiva, una scelta che la società dei consumi sembra proporre non più per adesione ai valori morali e penitenziali di cui la cultura religiosa ha storicamente caricato simili comportamenti, ma per motivazioni prevalentemente estetiche, igieniche o utilitaristiche.

Un eccesso è stato combattuto con un altro eccesso.

Massimo Montanari

Massimo Montanari insegna Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, dove ha fondato il Master “Storia e cultura dell’alimentazione”. Per Laterza ha pubblicato, tra l’altro: Alimentazione e cultura nel Medioevo; Convivio (3 volumi); Il pentolino magico; Storia dell’alimentazione (curata con J.-L. Flandrin); La cucina italiana (con A. Capatti); Storia medievale; Il cibo come cultura; Il formaggio con le pere. La storia in un proverbio; Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo; L’identità italiana in cucina; Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola; I racconti della tavola; Il sugo della storia; Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro; Cucina politica. Il linguaggio del cibo fra pratiche sociali e rappresentazioni ideologiche (a cura di); Amaro. Un gusto italiano; La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa.
https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788842051626
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