23 GIUGNO 2023 - SAN GIUSEPPE CAFASSO
Oggi - 23 giugno 2023 - venerdì della XI settimana del tempo ordinario, la Chiesa ricorda, tra i vari santi e beati, San Giuseppe Cafasso, sacerdote. Giuseppe venne al mondo il 15 gennaio 1811 a Castelnuovo d’Asti, nel Piemonte appartenente al Regno di Sardegna [oggi Castelnuovo Don Bosco (provincia di Asti, regione Piemonte) in onore di San Giovanni Bosco (1815-1888), che vi nacque solo quattro anni dopo]. Nella sua famiglia d’origine, composta di modesti contadini profondamente religiosi, era il terzo di tre figli, dei quali la sorella Marianna divenne madre del Beato Giuseppe Allamano (1851-1926), futuro rettore del convitto e santuario della Consolata a Torino, e fondatore dell’Istituto Missioni della Consolata. Frequentò le scuole pubbliche del suo paese, per poi entrare nel Seminario di Chieri (Torino). Difficile era prevedere per lui un futuro brillante, giacché a scuola andava piuttosto male e aveva un tono di voce sommesso, ma ricevette comunque l’ordinazione sacerdotale il 21 settembre 1833, nella chiesa dell’Arcivescovado di Torino. L’anno dopo ebbe il provvidenziale incontro con l’insigne moralista e teologo Don Luigi Guala (1775-1848), propugnatore della spiritualità di Sant’Ignazio di Loyola, il quale fondò il convitto ecclesiastico San Francesco d’Assisi, volto alla formazione del clero torinese, dove Giuseppe entrò nel 1834. Intanto in Piemonte iniziarono i moti risorgimentali e la Chiesa, già duramente perseguitata sotto Napoleone, si apprestava, dopo il regno del cattolico e amico della Chiesa Re Carlo Alberto (1798-1849), salito al trono nel 1831, a ricevere feroci attacchi dal nuovo governo liberale e massonico. Giuseppe si distinse presto come Padre Spirituale, direttore di anime, consigliere di vita ascetica ed ecclesiastica e formatore di sacerdoti, che diventavano a loro volta formatori di altri preti, religiosi e laici, in una sorprendente ed efficace catena. Fu rettore per ventiquattro anni del convitto ecclesiastico di Torino, che nel 1870 mutò sede e da via San Francesco si trasferì al Santuario della Consolata. Le sue lezioni erano attraenti perché costruite sulle verità di Fede e sul sapiente bagaglio di conoscenze, ma anche pulsanti di documentazione raccolta dal vivo nel confessionale, al capezzale dei morenti, nelle missioni predicate al clero, al popolo e nelle carceri, luogo a lui molto caro. Uomo di sintesi e non di pedanti trattazioni, combatté il rigorismo. Voleva fare di ogni sacerdote un uomo di Dio splendente di castità, di scienza, di pietà, di prudenza, di carità. Assiduo alla preghiera, alle funzioni religiose, al confessionale e devoto di Maria Santissima, era abituato ad attingere forza dal Santo Sacrificio. Primo dovere del prete, diceva, era quello di essere santo per santificare. Fu confessore della Serva di Dio Giulia Falletti di Barolo (1786-1864) e, fra i tanti sacerdoti da lui formati, molti furono quelli che diventarono fondatori di pie opere caritatevoli o istituti e congregazioni religiose. Ricordiamo, uno fra tutti, il già accennato suo compaesano San Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Tuttavia, operò soprattutto per la conversione dei peccatori della sua Torino, dedicando un’attenzione speciale ai carcerati e condannati a morte, dei quali ne accompagnò ben sessantotto al patibolo, talmente convinto della loro salvezza spirituale, ottenuta per intercessione della Madonna, che li chiamava i suoi “Santi impiccati”. Aveva, infatti, l’ambizione di fare entrare tutti i condannati a morte subito in Paradiso, senza che passassero per il Purgatorio e per ottenere questo dedicava tutto se stesso alla loro conversione. E’ proprio il caso di dire che, per quegli sventurati, fece più lui di mille leggi. Era assiduo frequentatore delle carceri, dette criminali o senatorie, tanto da rimanervi fino a tarda notte e a volte tutta la notte in compagnia dei condannati alla forca che dovevano essere giustiziati all’alba successiva. Portava loro sigari e tabacco da fiutare, al posto della calce che i carcerati raschiavano dai muri e annusavano per stordirsi; ma soprattutto accompagnava fino alla conversione ladri e assassini efferati. Erano lenti e tormentati pentimenti, altre volte, invece, si trattava di conversioni immediate, che avvenivano anche pochi istanti prima dell’impiccagione. Il “Prete della forca”, com’era chiamato dal popolo, usava immensa misericordia, possedendo un’intuizione prodigiosa dei cuori e trattava i suoi “Santi impiccati” come “galantuomini”, tanto che il colpevole sentiva così forte e vero il suo amore paterno e in esso l’Amore di Dio Padre, da piegarsi all’accettazione della propria sorte, alla conversione e a desiderare di morire per arrivare presto in Paradiso con Gesù, come il buon ladrone, crocefisso sul Calvario. Intanto le aspirazioni patriottiche del momento storico si ponevano in contrasto con le intenzioni giacobine e anticristiane. Clero e fedeli erano spinti a prendere posizioni estreme, ma Cafasso adottò una linea precisa: intransigente sulla dottrina e sui principi, schierato con la Chiesa e con il papa, ma ugualmente comprensivo con le anime e saggio moderatore nell’ordine pratico. Al clero piemontese raccomandò di non invischiarsi nelle questioni politiche, con esito talmente positivo che non si trovarono più sacerdoti seduti in Parlamento, ad approvare leggi filo monarchiche o pronti a professare l’errore dai pulpiti. Minato nel fisico, già piuttosto gracile a causa delle penitenze cui si sottoponeva e dalle fatiche del suo intenso apostolato, morì a Torino il 23 giugno 1860, a soli quarantanove anni. Qui fu seppellito all’interno del Santuario della Consolata, dove tuttora si trovano i suoi resti nella cappella a lui dedicata. Fu beatificato da papa Pio XI nel 1925, canonizzato da Pio XII il 22 giugno 1947 e l’anno dopo proclamato “Patrono delle carceri d’Italia”. Oggi è patrono dei carcerati e dei condannati a morte. Dotato di calma, accortezza e prudenza, fu soprattutto il grande nemico del peccato.
Roberto Moggi
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